2 novembre – Il potere della morte è stato vinto; Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Pubblicato giorno 1 Novembre 2019 - ARTICOLI DEL BLOG, Commenti alle letture festive 2019

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Fonte immagine: Wikimedia (tomba di J.J.R. Tolkien)

da Messale festivo EMP

Commemorazione dei fedeli defunti

La vita ha vinto la morte!

 

Commemoriamo oggi tutti i fedeli defunti, tutti coloro che abbiamo amato e che ci hanno preceduto fra le braccia del Padre, varcando la soglia ultima della vita. L’esperienza della morte si è fatta vicina a tutti noi ogni volta che abbiamo vissuto un lutto, ci ha posto interrogativi, ha incontrato le nostre domande e le nostre ribellioni, ha suscitato dolore e gratitudine insieme. Dolore per il distacco delle persone amate, per la sofferenza che spesso ha accompagnato il loro morire, dolore per non averli amati a sufficienza, ma anche gratitudine: per il dono di aver vissuto loro accanto, per tutto ciò che da loro abbiamo ricevuto, per la fede che spesso ci hanno testimoniato. Oggi vogliamo ricordare anche tutti coloro che nessuno ricorda, tutti coloro che sono morti tragicamente, tutte le vittime del terrorismo a qualsiasi religione appartengano, le vittime dell’ingiustizia, della fame, della guerra, dei trafficanti senza scrupoli di esseri umani, tutti i bambini non nati. Li vogliamo ricordare nella certezza che tutti vivono presso Dio, che tutti sono posti dal sacrificio redentore di Gesù sotto il segno della sua pasqua. Sì, la pasqua di Gesù costituisce la chiave di volta di questo giorno, costituisce la luce che ci dona speranza, costituisce il senso stesso di questa celebrazione. Ogni volta che noi celebriamo questo giorno in realtà celebriamo la pasqua di Gesù, la fede nella sua morte e nella sua risurrezione, la sua presenza fra noi nel segno del pane, la forza dirompente di vita nuova del suo perdono. Celebriamo la vita senza fine che inizia proprio lì dove la parola fine sembra avere la vittoria. Certamente celebrare questo giorno chiama in causa la nostra fede: fede nella vittoria di Gesù. «Quando si sa che il potere della morte è stato vinto, quando il miracolo della risurrezione e della nuova vita illumina il mondo della morte, non si pretende l’eternità da questa vita e non si esige da lei tutto o nulla, ma si prende ciò che essa dà: cose buone e cattive, importanti e no, gioia e dolore; non ci si afferra convulsamente alla vita, ma non la si getta via alla leggera, ci si contenta del tempo che tocca in sorte a ciascuno e non si attribuisce carattere di eternità alle cose di questa terra, si riconoscono alla morte i limitati diritti che ancora essa possiede. Infine, la potenza che sta oltre la morte e che l’ha vinta è l’unica dalla quale ci si attenda l’avvento di un uomo e di un mondo nuovi» (D. Bonhoeffer, Fedeltà al mondo).

Prima Messa

prima lettura   Io so che il mio redentore è vivo!

Lo splendido e appassionato brano tratto dal libro di Giobbe manifesta il cuore dell’uomo di fronte al mistero del dolore e della morte. Giobbe, provato negli affetti più cari, dalla morte dei figli alla perdita di tutte le sue sostanze, della stima della moglie, della comprensione degli amici, non si sottrae all’ultima lotta necessaria, quella con Dio, ragione ultima del nostro vivere e del nostro morire. Le parole che ora ascoltiamo vibrano di passione e di tenerezza, poiché il buio del dolore non ha spento la luce e il fuoco che ardono in fondo al cuore di Giobbe, la sua certezza nell’amore di Dio quale riscattatore di tutto ciò che è vita e di tutto ciò che è umano.

seconda lettura   La speranza non delude

Il Nuovo Testamento porta sempre a compimento l’Antico: se il brano di Giobbe, che abbiamo appena ascoltato, manifesta in maniera toccante i sentimenti del cuore umano, il brano di san Paolo ai romani, manifesta in maniera ancora più toccante i sentimenti del cuore di Dio verso di noi. Paolo non ci fa riflettere sul senso della morte, ma ci rivela che Dio stesso in Cristo ha dato la sua vita per noi e, come se ciò non bastasse, il suo sacrificio redentore ci ha donato la stessa vita divina.

vangelo   La volontà di colui che mi ha mandato

Il capitolo 6 del Vangelo secondo Giovanni è un capitolo interamente eucaristico. Nella sinagoga di Cafarnao Gesù pronuncia il discorso del pane: egli parla di se stesso come del vero pane disceso dal cielo e donato dal Padre agli uomini affinché, nutrendosi di lui, vivano anche di lui, vivano cioè dello stesso amore che lo anima nei confronti del Padre e degli uomini, vivano i suoi stessi sentimenti, le sue azioni al servizio del bene, la sua vittoria sul male e sulla morte. Ogni settimana noi abbiamo la grazia di partecipare all’eucaristia: ma non si tratta di un atto utile a mettere in pace la nostra coscienza nel rispetto di un precetto, ma di un evento rivoluzionario, l’unico capace di cambiarci veramente il cuore. Sì, Dio ci cambia il cuore attraverso quello che i Padri chiamano «battesimo laborioso», ossia attraverso il suo «convivere con noi» e «conmorire con noi», così come noi «conviviamo con lui» e «conmoriamo con lui». Il brano di oggi ci aiuta a comprendere quanto il cuore di Gesù, quanto la sua volontà è unita a quella del Padre, quanto la volontà del Padre costituisca per lui l’unica ragione della sua stessa incarnazione: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato». La volontà del Padre è che il Figlio non perda nulla di tutto ciò che è umano, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. E in che modo tutto ciò che è umano non va perduto, in che modo tutto ciò che è in noi non va perduto? Non va perduto quando vedendo il Figlio crediamo in lui, quando vedendo l’uomo crocifisso crediamo nella sua divinità, quando vedendo una tomba vuota crediamo nella sua risurrezione.

Seconda messa

prima lettura   Eliminerà la morte per sempre

È di una tenerezza straordinaria il brano tratto dal libro del profeta Isaia: come un padre tenerissimo Dio si china su tutta l’umanità che, come un piccolo bimbo piangente, geme nel suo dolore. Il piccolo bimbo dell’umanità piange a causa di tutta la sofferenza che da sempre accompagna la sua esistenza sulla terra, quella sofferenza che tanto spesso si è levata come grido al cielo e che non ha trovato risposta, ma che pure è preziosa agli occhi di Dio. Dio risponde a questo grido e pianto di dolore preparando un banchetto di festa, al quale si accederà dopo che l’ultimo velo che impedisce di vedere la verità sarà stato tolto, dopo che tutte le lacrime saranno state asciugate. Perché Dio sa che solo allora si può davvero fare festa.

seconda lettura   Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura

Il testo di san Paolo ai romani riprende il tema iniziato dalla lettura del profeta Isaia: ci colloca nel punto esatto in cui il tempo e l’eterno si toccano, nel punto esatto in cui il tempo sfocia nell’eterno. Questa soglia è definita dalla grande vittoria di Cristo risorto, che segna la fine delle sofferenze. San Paolo osa porre a confronto le sofferenze della vita presente e la gloria futura attestando che le sofferenze non sono paragonabili alla gloria che un giorno sarà rivelata in noi, perché le sofferenze sono temporanee, la gloria è eterna… ma ciò significa una cosa sola: che noi siamo eterni!

vangelo   Ho avuto fame

La pagina di Matteo che caratterizza questa seconda messa per il giorno della commemorazione di tutti i defunti è nota con il titolo di «giudizio universale». Se leggiamo attentamente il testo di Matteo alla luce dei testi di san Paolo e del profeta Isaia, ritroviamo una costante, un filo rosso che li lega. Tutte e tre le letture ci parlano dei due grandi tempi che segnano la vita umana, scandendola in vita temporale e in vita eterna. Ma esse ci sono rivelate come unite, mai come scisse, separate l’una dall’altra: sono sempre descritte come comunicanti, adiacenti, debordanti l’una nell’altra, fin d’ora. Poiché la vita eterna è amore, tutto ciò che è amore anche nella vita terrena in realtà ne travalica i confini, rende eterno l’agire dell’uomo, o meglio, lo rende divino. Per accedere all’amore non è necessario compiere imprese eclatanti, non è necessario divenire eroi, è sufficiente dare da mangiare a chi ha fame, dare da bere a chi ha sete, accogliere lo straniero, vestire l’ignudo, visitare il malato, assistere il carcerato. In nessun altro modo l’uomo può fin d’ora sconfiggere la morte che entrando nell’amore. Noi stessi, il nostro stesso cuore, passa da morte a vita quando ama il fratello.

Terza messa

 

prima lettura   Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità      

Secondo la Scrittura vi è un unico motivo per cui la gioia è l’ultima parola sulla vita dell’uomo, è il destino dell’uomo: ossia tutti coloro che hanno confidato in Dio sono per sempre nelle sue mani, «nessun tormento li toccherà». Chi di noi non desidera questa gioia? In questo breve brano pieno di consolazione è contenuta un’interessante definizione di stoltezza: stoltezza è ritenere una sciagura la dipartita dei fratelli, poiché essi, essendo in Dio, «sono nella pace». Stoltezza è ritenere castigo ciò che invece è speranza «piena di immortalità». Il brano della Sapienza ci dice che Dio prova attraverso brevi pene i suoi figli, e che in questo «saggiarli» egli li trova simili a lui, «degni di sé». Anche la sofferenza, ineliminabile compagna di viaggio dell’uomo, ha una sua utilità: allargare i confini del cuore alle dimensioni di Dio.

seconda lettura   Vidi la Gerusalemme nuova, scendere da Dio

Ed ecco che, in questo giorno, la liturgia ci offre una consolazione insperata ed enorme, attraverso un brano tratto dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo, brano intriso di nuzialità. Lo sguardo di Giovanni, ossia il nostro sguardo di lettori e ascoltatori della Parola, si spinge oltre il visibile, penetra l’invisibile del domani eterno di Dio. Quando il cielo e la terra, così come li abbiamo sperimentati, saranno passati, si rivelerà in tutta la sua consistenza quel mondo la cui esistenza è stata chiamata alla luce dalla parola creatrice di Dio. L’umanità, che nella prima creazione è stata tratta dalla terra, apparirà per ciò che è sin d’ora: tratta dal cielo, discendente da Dio, «pronta come una sposa adorna per il suo sposo», Gesù.

vangelo   Beati voi!

Forse ci stupirà che il Vangelo odierno, predisposto per questo terzo schema, sia lo stesso di ieri. La liturgia ci fa ascoltare la medesima parola, lo stesso lieto annuncio tanto nella festa di Tutti i Santi, quanto nella Commemorazione dei fedeli defunti, poiché uno solo è il destino dell’umanità: la vita piena di tutti gli uomini in Cristo. Oggi siamo invitati a commemorare tutti i nostri cari defunti pensandoli come beati. Certamente beati, perché ormai le tribolazioni della vita sono alle loro spalle, perché passati oltre il dolore della prova, della tentazione e della morte. Ma se la beatitudine fosse solo questo, quello di Gesù non sarebbe un insegnamento, ma una semplice dichiarazione. Invece quello di Gesù è un insegnamento rivolto a noi oggi, è tutt’altro che una parola di consolazione a buon mercato: è una parola densa di Vangelo, densa di concretezza, vibrante di gioia, animata da una speranza indistruttibile. Ciò che ci rende beati non è la possibilità – impossibile per l’uomo! – di passare la vita indenni, di giungere al capolinea con le mani pulite. No, ciò che ci rende beati è la fiducia nella parola di Gesù che vive in noi e che, attraverso noi, vuole manifestare che la felicità è più grande del pianto, la mitezza è più forte della violenza, la giustizia è il completamento di tutto ciò che è umano, la misericordia è cifra delle relazioni, la purezza di cuore è la possibilità di vedere sempre il volto di Dio, l’azione di pace è l’espressione della nostra figliolanza da Dio, la sopportazione della sofferenza è possibile per amore di Cristo che ha dato interamente se stesso per noi. La Parola vissuta ci rende «relativi» a Gesù, ci fa dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»! Questo vuol dire essere beati! Divenire beati!

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