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Venerabile Giovanna Maria della Croce (Bernardina Floriani)

Profilo biografico della Ven. Giovanna Maria della Croce

“Sappi che l’amor mio
è tanto che trovò modo
di assomigliarsi a voi.

E la Sapienza divina
fece che il Verbo si umanasse
vestendosi di carne umana,
e sotto quelle spoglie
nascose il tesoro
della sua divina carità e misericordia.

L’amore di voi creature
ha avuto tanta forza
da tirare il Verbo a farsi uomo!

Da questo capirai
le grandezze dell’amor divino,
e che altro documento rappresenta a te,
salvo che ami l’Amante Iddio
con tutto il cuore e il prossimo come te stessa?”

ven. Giovanna Maria della Croce

La terra natale
Nel pieno centro della Val Lagarina, fiancheggiata da due catene di monti e resa verde dalle acque del sinuoso corso dell’Adige, in un’ampia conca allo sbocco con la Vallarsa si stende una cittadina capace di generare incontri: Rovereto. È questa la città che l’8 settembre 1603 diede i natali a Bernardina Floriani.
In un disegno dipinto proprio dal papà di Bernardina, grazie alla sua dotata mano di artista, possiamo ammirare la bellezza discreta di Rovereto, che già fa presentire l’eco del fascino austero e misterioso del vicino arco alpino.
Nell’epoca in cui visse Bernardina ormai da quasi un secolo la cittadina apparteneva ai domini dell’Impero asburgico, alla diretta dipendenza dell’imperatore, pur facendo parte della Contea del Tirolo, governata per lo più dai figli cadetti dell’imperatore. Era parte, dunque, di quel territorio che segnava il confine fra il mondo germanico e il mondo della penisola italica. Un territorio che, per le sorti e il successo della riforma avviata dal Concilio di Trento (1545-1563), rappresentava un baluardo strategico contro la penetrazione e diffusione del protestantesimo.
Ecclesiasticamente Rovereto dipendeva dal principe vescovo di Trento che, pur sotto l’influenza dei conti del Tirolo, esercitiva un’autorità diretta sul suo territorio, affiancata da piccoli domini subordinati ad alcune grandi famiglie nobiliari come i Lodron, i Madruzzo, i Cles, i Castelbarco.
Il dipinto di Giuseppe Floriani, con le sue mura, il castello fortificato, le torri, le chiese, i conventi e le case nobiliari, lascia intuire il complesso e delicato quadro di equilibri e intrecci politico-istituzionali, dinastici ed ecclesiastici in cui la città veniva a trovarsi inserita.
In questo quadro un ruolo non piccolo svolgevano anche gli Ordini religiosi, la cui diffusione era benvista e appoggiata come strumento prezioso nell’opera di contrasto del protestantesimo sia dagli Asburgo sia dai principi-vescovi di Trento. In particolare ebbe un’incidenza profonda il carisma francescano per la sua capacità di intessere rapporti di intensa familiarità e condivisione con la popolazione sia cittadina sia rurale. Il suo influsso profondo è ancora oggi ben testimoniato dall’eredità che ha lasciato: le valli trentine sono tuttora punteggiate dai conventi dei figli di Francesco d’Assisi.
La vita di Bernardina e la sua vocazione personalissima e singolare si intreccerà strettamente e provvidenzialmente con questo quadro storico nel momento del suo incontro con il fratello laico cappuccino Tommaso da Olera, oggi beato, figura particolarmente rappresentativa dell’evangelizzazione francescana, che esercitò una notevole influenza religiosa soprattutto in Tirolo, dove era notissimo per la vita e fama di santità.
Tommaso giunse a Rovereto verso il 1612 destinato al convento di santa Caterina, la cui chiesa, trovandosi nel rione dove abitavano i Floriani, era frequentata dalla famiglia di Bernardina.

La famiglia Floriani
Bernardina era la terza dei sette figli di Giuseppe Floriani e di Girolama Tessandri, chiamata anche Oliva perché nata la domenica delle Palme, giorni degli olivi. Giuseppe Floriani era un pittore abbastanza noto, ma poco accorto nell’amministrare i suoi affari. Così l’infanzia di Bernardina fu segnata dalle difficoltà economiche familiari, ma più ancora dalle malattie e dai lutti: dei sette fratelli, infatti, sopravvissero all’età infantile solo lei e Giovanni, che arriverà a distinguersi come violinista alla corte di Paride Lodron, principe-vescovo di Salisburgo. Ma morì anch’egli ancora piuttosto giovane, nel 1637. Nel frattempo, nel 1624, era morto anche l’amato padre. Della numerosa famiglia Floriani rimasero solo Bernardina e la madre.
Bernardina fin da bambina mostrò un’inclinazione spontanea e sensibile all’educazione religiosa che andava ricevendo in famiglia e in parrocchia, fino a manifestare una precoce vocazione alla vita religiosa. Lei stessa racconta che all’età di cinque anni non poteva sentire nominare la passione del Signore senza grande tenerezza d’affetto e lacrime e che a sette anni, spinta dalla carità divina, fece voto di verginità, sebbene non ancora capace di quanto faceva. Negli anni seguenti, però, quasi dimenticò il suo proposito di amore totale al Signore: cominciò a frequentare giovani sue pari e ad affezionarsi ai passatempi praticati con esse.
Ma l’amore divino faceva duello con l’amore umano: il suo Dio, innamorato, la seguiva ovunque andasse e quanto più lei fuggiva per non sentir le saette che le passavano l’anima più lui la seguiva, sino a che la divina carità la colpì di sorte e lei più non uscì dalle mani del suo Dio.

La conversione
Il complice della divina carità fu proprio fra Tommaso da Olera. Quando Bernardina aveva circa tredici anni, avvenne l’incontro personale con lui, che giungerà a incidere in maniera decisiva sui suoi propositi infantili, ancora ingenui ed oscillanti. Su questo evento determinante della sua vita, che aprirà le porte alla sua conversione, possediamo la testimonianza della stessa Bernardina, che ne racconterà nei suoi scritti, in particolare nell’autobiografia spirituale, e nella sua testimonianza scritta in vista del processo di beatificazione di fra Tommaso.
La prima volta che il frate la vide le manifestò che la divina volontà su di lei era che non camminasse per via ordinaria, ma particolare, e che Dio l’aveva eletta per sua sposa. La reazione di Bernardina alle parole del frate fu una silenziosa e ostinata resistenza, che si protrasse per un anno intero, nel corso del quale fra Tommaso ogni mercoledì andava da Bernardina, invitandola all’adesione alla volontà divina con parole che, come riconosce lei stessa, avrebbero spezzato le pietre, nonché i cuori. Ma Bernardina non cedette, anzi, prese Tommaso in tale odio che avrebbe voluto non solo non vederlo, ma neppure sentirlo nominare. E quando udiva altri lodarlo per la sua perfezione e bontà avrebbe voluto, se le fosse stato lecito, negare la sua fama di santità.
Negli anni successivi fra Tommaso si assentò spesso da Rovereto per vari incarichi assegnatigli dal suo Ordine, fino al suo trasferimento definitivo nel 1619 quando, su richiesta del reggente del Tirolo Leopoldo V, a cui era legato da amicizia personale, venne incardinato nella provincia cappuccina del Tirolo, da poco fondata, nel convento di Innsbruck. Bernardina tirò un sospiro di sollievo, ma la sua consolazione durò poco, perché Dio giorno e notte non restava di battere al suo perfido cuore.
Per distrarsi dalle chiamate interne era solita andare a passeggiare con le amiche nei campi, dove si faceva festa per la vendemmia. Un giorno, giunte a un campo in cui si trovava anche una delle figlie spirituali di fra Tommaso, inizialmente si rifiutò di entrare, poi, convinta dalle amiche, si risolse. Ma entrata avvertì come una ferita nel cuore e si commosse a tal punto che sparse un fiume di lacrime. Fu la resa totale e completa a quel Signore che da anni batteva alle porte del suo cuore. Da allora ogni suo desiderio sarà rivolto a servire Dio in una nuova vita.
Fra Tommaso da quel momento fino alla sua morte, avvenuta nel 1631, fu il suo grande maestro spirituale pur nella lontananza da Rovereto, dove comunque tornava spesso, divenendo e rimanendo anche dopo la morte un punto di riferimento fondamentale nel cammino spirituale di Bernardina, segnato fin dagli esordi da manifestazioni mistiche straordinarie.
Tommaso indirizzò inizialmente i suoi grandi desideri di amare Dio e che da altri fosse amato nella forma di un voto privato di verginità, che dopo un periodo di prova Bernardina confermò offrendo il corpo, l’anima, il cuore in perpetuo al suo amantissimo Sposo.
Inoltre fra Tommaso orientò le scelte fondamentali della sua esistenza e lo scopo storico della sua vocazione verso la fondazione di un monastero di clarisse a Rovereto. Predisse infatti a Bernardina che Dio l’aveva scelta per pietra fondamentale di un convento che si sarebbe fatto a Rovereto, una casa di delizie, dove Iddio avrebbe diluviato le sue misericordie e avrebbe passeggiato in essa come in un florido giardino.
Il progetto di fondazione si inseriva nell’ampio contesto del rinnovato dinamismo di espansione degli ordini monastici femminili dell’epoca postridentina, intrecciando la vocazione di Bernardina alla storia già secolare della presenza francescana in terra trentina: erano poste le basi perché anche in questa terra il carisma clariano germinasse nella sua genuinità originaria di testimonianza dell’Amore che si fa povero e crocifisso per redimere gli uomini.
Ma in una fase storica caratterizzata in modo deciso da un processo sociale di aristocratizzazione, in cui la fondazione di nuovi monasteri era un evento riservato ai nobili, Bernardina, non appartenendo alla nobiltà e non avendo grandi disponibilità economiche, non possedeva lo status di fondatrice. Iniziava così per lei un percorso verso la monacazione lungo e non lineare.

“Il tuo esercizio non deve essere altro che amore”
Negli anni successivi alla conversione di Bernardina fra Tommaso stesso si adoperò per la realizzazione del progetto di fondazione, inserendo la sua figlia spirituale in una tela di relazioni che nel tempo si sarebbero rivelate provvidenziali, fra cui quella con i conti del Tirolo, con Sibilla Fugger, moglie del conte Lodron, e con il cenacolo spirituale che si riuniva nella casa della famiglia Simoncini. Ma infine Tommaso stesso sembrò doversi arrendere agli ostacoli che si opponevano al progetto. L’esistenza di un convento di frati conventuali nel territorio di Rovereto, di un convento di carmelitani e di cappuccini all’interno della città e le pratiche già avviate per un convento di frati minori riformati, sconsigliavano l’apertura di un quinto convento di monache, e tutti mendicanti, in una piccola città di poche migliaia di abitanti. Tommaso incontrò l’opposizione sia dei confratelli sia dei membri del consiglio cittadino, e nonostante l’appoggio e il finanziamento dei conti del Tirolo morì senza vedere realizzata la fondazione del monastero.
Bernardina, priva dell’appoggio dell’influente cappuccino, sembrò per un po’ di tempo accantonare il progetto, ma la tessitura della rete di amicizie e solidarietà creata in quegli anni cominciò lentamente e nascostamente a portare i suoi frutti.
Una trama di questa tela, drammaticamente provvidenziale, fu l’epidemia di peste degli anni trenta, che devastò pesantemente anche Rovereto, già provata dai danni della guerra dei Trent’anni ancora in corso. Bernardina che fino ad allora, pur svolgendo un’intensa attività assistenziale nei confronti dei poveri e dei malati, era vissuta appartata, chiese e ottenne il permesso di circolare liberamente in città, posta in una sorta di quarantena per via del contagio, per prendersi cura degli appestati. Da quel momento la fama della sua carità e dei suoi carismi di guarigione non fece altro che crescere, creando attorno a lei una rete di consensi e di appoggi, insieme però anche a mormorazioni e opposizioni. Fra coloro che le dettero sostegno ci furono anche i francescani riformati, dando inizio a un legame stabile e duraturo che avrebbe accompagnato Bernardina per tutta la vita. Fu proprio uno di loro, padre Eufemio di Miglionico, che per primo diede a Bernardina l’obbedienza di mettere per iscritto le sue esperienze mistiche.
Intanto proprio sul piano mistico una serie di visioni andava rafforzando in Bernardina la determinazione a realizzare il progetto del monastero. Fra tante emerge quella della notte del 2 agosto 1637, quando Bernardina vide in sogno santa Chiara: le apparve sull’altare maggiore della chiesa di S. Caterina, lì dove Bernardina aveva emesso il suo voto di verginità, con in mano il pastorale, simbolo della chiamata divina a collaborare all’edificazione della Chiesa. Chiara chiese a Bernardina di farsi clarissa e poi le passò il pastorale affidandole l’Ordine delle Clarisse e dicendole: volio lasiare il carico a te della mia religione.
Nel viaggio di orazione che Bernardina aveva ormai intrapreso vari anni prima, Dio, che andava sempre moltiplicando nell’anima sua le grazie, la stava conducendo verso il vertice dell’esperienza mistica, verso il più alto grado di unione con lui concesso sulla terra a una creatura umana, a quello stato di comunione in cui Dio e la sua creatura non sono più due, ma una cosa sola. Il giorno dell’Epifania del 1640 Bernardina, mentre andava a ricevere la comunione, si sentì interiormente invitata a fare la sua offerta al gran Re del cielo sull’esempio dei re magi. Pur arrossendo per la sua povertà, offrì ciò che aveva: l’anima, il corpo, la purità virginale (rinnovado il voto), e ciò che aveva e mai potessi avere, volendo che il tutto servisse per dar gloria alla sua Maestà. E vide che Dio con somma gioia riceveva la sua offerta, facendole intendere queste parole: Oh, che buon cambio hai fatto, anima mia, in darti tutta a me, povera mendica miserabile e tutta imperfetta; e io, quell’immenso incomprensibile infinito, tutto mi dono a te, perciò nell’avvenire non voglio più che vi sia divisione tra te e me; perciò prendi le cose mie per tue, e io prenderò le tue per mie; tu per l’avvenire non cercar altro che la mia gloria e io, stando dentro di te, a ciò ti spingerò con una attrattiva amorosa che di altro non potrai pensare, né parlare. Io per l’avvenire non ti amerò più come amante, né come sposa, ma come coniugati posti in matrimonio. Come una medesima cosa, io tutto tuo e tu tutta mia. La vita di Bernardina, già donata al Signore, ne risulterà sempre più afferrata e manifesterà sempre più trasparentemente l’opera della grazia, dello Spirito, che ridonderà abbondantemente a beneficio di tutti coloro che la avvicinavano.
Bernardina ne farà esperienza in tanti modi. Nell’autobiografia racconta che per il gran cumulo di persone che si raccomandavano alla sua preghiera, anche da lei non conosciute, spesso le uscivano di mente, ma poi con sua sorpresa venivano a ringraziarla per la grazia ottenuta. Dio le chiede ragione della sua sorpresa, rammentandole la sua promessa di prendere le cose di Bernardina per sue. Analogamente, ricordandole di nuovo la medesima promessa, Dio richiama Bernardina dal non distrasi dai purissimi amplessi del suo amore per pregare per altri, le chiede di lasciarne la cura a lui, e di non fare queste distinzioni, perché egli come sposo fedele ha i suoi sguardi sempre rivolti alla sua sposa e non vuole che nulla le manchi. Il tuo esercizio non deve essere altro che amore, le dice.
Nello stesso tempo Bernardina sperimenta che il suo rapporto nuziale con Dio ha come luogo necessario la croce, secondo la tradizione francescana, alla cui scuola andava crescendo. Il dono che aveva fatto a Dio di tutta se stessa la spinse fino alla conformazione a lui anche nel corpo, con il dono delle stimmate, il privilegio più grande che possa essere elargito a una creatura e un segno evidente di elezione divina. In lei, come già era stato per Francesco d’Assisi, le stimmate diventano una testimonianza altissima alla forma crocifissa dell’amore, alla forma più grande dell’amore, il punto più estremo a cui si è spinto Dio, pazzo d’amore per le sue creature.

Una volta sentendo l’anima una fame ardentissima di comunicarsi per quella fu rapita in spirito e l’amante Iddio diceva all’anima che la brama sua per gli eccessi del suo amore infinito eccedeva quelli dell’anima, brama di venire a lei nel suo sacramento per comunicarle le sue misericordie e conferirle regali del suo infinito amore, e disse: «Ricevimi, anima da me amata, e ponimi per sigillo sopra il tuo cuore: Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum (Cantico dei cantici 8,6: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio)».
Voleva dire l’amante delle anime che poneva un segno sopra il cuore, affinché altri amatori che lui non lo possedesse.
Disse di più: «Ponimi per segio sopra il tuo braccio, e questo significa che le tue operazioni non abbiano mai altro fine che l’onor mio e il mio divino volere e sempre per più amarmi e unirti al purissimo amor mio. L’amor mio è forte come la morte. Questo divino amore non fa parzialità, ma quelli che dal canto loro fanno quanto possono per disporsi, ritrovandoli disposti l’amor mio si impadronisce di loro e le cose della terra li infastidiscono. Io ti ho innalzata all’amor mio. Più volte mi hai sacrificato tutta te stessa e io ho ricevuto il sacrificio, e sappi che il tuo cuore non è più tuo, ma mio, né altri amatori lo possono ricevere, né possedere. Io porrò in quello lampade di fuoco, che spargeranno fiamme in ogni parte: queste sono le mie cinque piaghe, le quali porrò nel tuo cuore e mirate da te ti faranno luce, toccate ti saranno fuoco che ti accenderà nelle fiamme della divina carità, palpate ti faranno languire per dolore ed estrema dolcezza, leggendo in quelle diverrai in ogni scienza ammaestrata. Tu sei tutta mia e io sono tutto tuo».

Bernardina, comprendendo che Dio voleva farle un tale dono, segnandola col sigillo della sua misericordia, gli chiese e ottene che non apparissero esteriormente, perché non voleva essere oggetto di attenzioni ambigue. Le stimmate le si impressero nel cuore, ma durante tutto il corso della sua vita spesso ne sentì la corrispondenza anche nelle mani e nei piedi.

In un sacro silenzio disse a lei indegnissima sua divina Maestà: «Recati a memoria come io ti feci noto che volevo mi ponessi per sigillo sopra il tuo cuore e chiaramente ti dissi che volevo regalarti le mie cinque piaghe; e come ora non comprendi il mistero che altro non contiene che me crocifisso? Pensavi forse di ricevere un così incomprensibile dono senza sentirne la pena? O figliola, neanch’io lo ricevetti se non con eccessive pene. Ora portami con te crocifisso, né più occorre che mi cerchi nel Calvario ma nel tuo cuore, e quei dolori li sentirai sino alla morte, ma una volta più dell’altra: all’ora nona e sesta alle volte si faranno sentire più dell’ordinario, altre volte i dolori si muteranno in refrigerio e in estreme dolcezze e ti apporteranno gaudi incredibili; e, di più, si muteranno in lampade di fuoco ardente, e col loro calore ti accenderanno l’anima e col loro splendore la illumineranno e le faranno prendere più alto il volo della contemplazione, e trasformeranno l’anima in Dio e la faranno con Lui un medesimo spirito. Ti ho segnata col sigillo della mia misericordia, perché tu sei tutta mia, e io sono tutto tuo».

La vita ritirata in casa Simoncini
Nel 1642 i fili intessuti in tanti anni cominciarono a lasciar intravedere la trama provvidenziale sottostante: si iniziò a trattare seriamente la fondazione del monastero di santa Chiara in Rovereto. Sibilla Fugger Lodron, rimasta vedova senza figli e potendo disporre dell’ingente patrimonio ereditato, aveva abbracciato completamente il progetto di Bernardina, rivelandosi una delle sue più preziose alleate. Il 15 aprile di quell’anno dopo lunghe e difficili trattative acquistò casa Simoncini, attigua alla chiesa di San Carlo. Il 12 maggio successivo vi entrarono Bernardina con la madre ed alcune altre compagne, raggiunte pochi mesi dopo dalla stessa Sibilla, dando inizio a una vita ritirata secondo una forma che avrebbe dovuto portare a buon esito le trattative con le autorità ecclesiastiche per ottenere il riconoscimento di monastero.

Nonostante la buona fama di cui godeva Bernardina, molte furono le mormorazioni su di lei e le opposizioni che incontrò. Furono tanti i travagli che Bernardina scrisse di non ricordarli neppure tutti! Fra tanti nomina la fatica per avere confessori dell’ordine dei frati riformati e il loro governo, secondo quella che lei sapeva essere la volontà divina.
Ma l’episodio più grave che rischiò di far naufragare il progetto e che mise seriamente in pericolo l’esistenza stessa di Bernardina fu l’apertura di un’inchiesta inquisitoria contro di lei: volevano che nella casa io insegnassi delle eresie. Il pericolo era serio. Negli stessi anni nella vicina Nogaredo un analogo processo si sarebbe concluso con la condanna al rogo delle donne accusate. Ai frati venne proibita l’assistenza spirituale alla casa ritirata. Bernardina si trovò isolata, ma non si abbatté: andai dal mio solito rifugio che fu la santa orazione. Con l’appoggio prezioso di Sibilla prese la decisione coraggiosa di uscire dalla casa per confessarsi e assistere alla messa nella chiesa dei frati. Fu un atto audace, che manifestò la convinzione di Bernardina di quale fosse la divina volontà riguardo al monastero e al suo legame con i frati. Questo nonostante persone timorate di Dio le dicessero che non dava buon esempio in voler correre dietro ai frati.
In queste circostanze Bernardina con suo grande dispiacere bruciò le lettere che le aveva scritto fra Tommaso da Olera e che lei aveva gelosamente conservato fino ad allora. Temeva che per causa sua potesse venire gettata qualche ombra sulla figura del suo grande padre spirituale, sul quale i confratelli stavano raccogliendo testimonianze e documentazioni per avviare il processo di beatificazione.
L’inchiesta e l’esame degli scritti di Bernardina portò alla sua completa assoluzione, anzi gli stessi teologi esaminatori delle sue opere la invitarono a continuare a scrivere affinché le tante misericordie di Dio non rimanessero sepolte.
Infine anche questo evento drammatico si rivelò provvidenziale: l’assoluzione poneva, infatti, le condizioni per il riconoscimento canonico della fondazione come monastero dell’Ordine di Santa Chiara. Il 13 settembre 1645 papa Innocenzo X diede l’autorizzazione per la redazione del breve di fondazione. Il documento, emanato in data 7 agosto 1646, stabiliva le condizioni per il riconoscimento canonico: l’assistenza spirituale della provincia francescana dei frati minori riformati, il numero minimo di professe per procedere all’erezione, la necessità di due istitutrici provenienti da altri monasteri di antica tradizione per i primi sei anni. Il breve concedeva inoltre la facoltà di redigere delle Costituzioni da affiancare alla regola di Urbano IV per le clarisse.
Quest’ultima concessione lascia facilmente intuire una precisa richiesta in tal senso da parte di Bernardina stessa. Nei suoi scritti rivela che fu lo Spirito Santo ad illuminarla su questa piccola regola, posta sotto il nome di Costituzioni, per il monastero da fondare e per altri ancora che sarebbero potuti sorgere. Era stata di nuovo santa Chiara a confermarla in questa direzione, svelandole in visione che non voleva che assumesse la sua prima regola, ma quella dei pontefici, perché bisognosa di riforma. E chiese a Bernardina di avere di mira tre cose particolari: la perfetta povertà, l’orazione e meditazione della vita e passione del Signore, e la pace e la concordia delle sorelle, invitandola a incominciare a lavorare nella vigna del Signore con cuore virile.
Dunque Chiara chiede a Bernardina di essere fedele al carisma, suscitato attraverso di lei nella Chiesa, di una vita in santa unità e altissima povertà nel fondamento di Dio-Amore, rivelato dal Figlio facendosi povero e morendo in croce per gli uomini.

Dal Testamento di santa Chiara

Nel nome del Signore. Amen.
Tra gli altri doni, che ricevemmo e ogni giorno riceviamo dal nostro Donatore, il Padre delle misericordie, per i quali dobbiamo maggiormente rendere grazie allo stesso glorioso Padre, c’è la nostra vocazione: e quanto più è grande e perfetta, tanto più siamo a lui obbligate. Perciò l’Apostolo dice: Conosci la tua vocazione.
Per noi il Figlio di Dio si è fatto via, che ci mostrò e insegnò con la parola e con l’esempio il beatissimo padre nostro Francesco, di lui vero amante e imitatore. …
[Francesco] scrisse per noi una forma di vita e soprattutto che perseverassimo sempre nella santa povertà. …
Così io, Chiara, ancella di Cristo e delle sorelle povere del monastero di San Damiano, benché indegna, e pianticella del padre santo, considerando con le altre mie sorelle la nostra altissima professione e il comandamento di un padre tanto grande, e anche la fragilità delle altre, che temevamo in noi stesse dopo la morte del santo padre nostro Francesco – che era nostra colonna e nostra unica consolazione dopo Dio e sostegno -, più e più volte volontariamente ci obbligammo alla signora nostra, la santissima povertà perché, dopo la mia morte, le sorelle che sono con noi e quelle che verranno in seguito abbiano la forza di non allontanarsi mai da essa in nessuna maniera. E come io sono stata sempre diligente e sollecita nell’osservare io medesima, e nel fare osservare la santa povertà, che abbiamo promessa al Signore e al santo padre nostro Francesco.
Ammonisco ed esorto nel Signore Gesù Cristo tutte le sorelle, presenti e future, che si studino sempre di imitare la via della santa semplicità, dell’umiltà e della povertà, ed anche l’onestà di quella santa vita, che ci fu insegnata dal beato padre nostro Francesco fin dal principio della nostra conversione a Cristo.
Per mezzo di queste virtù, e non per i nostri meriti, ma per la sola misericordia e grazia del Donatore lo stesso Padre delle misericordie (Cfr. 2Cor 1,3), effondano sempre il profumo (Cfr. 2Cor 2,15) della loro buona fama su quelle che sono lontane, come su quelle che sono vicine.
E amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, quell’amore che avete nel cuore, dimostratelo al di fuori con le opere (Cfr. Gc 2,18), affinché le sorelle, provocate da questo esempio, crescano sempre nell’amore di Dio e nella mutua carità.
Questo scritto, perché sia meglio osservato, io lascio a voi, sorelle mie amatissime e carissime, presenti e future, in segno della benedizione del Signore, del beatissimo padre nostro Francesco e della benedizione della vostra madre e serva.

Il monastero San Carlo
Il 27 marzo 1647, come annota Bernardina nella sua autobiografia, si diede principio alla fabbrica del monastero dell’Ordine della santa madre Chiara in Rovereto. I lavori proseguiranno fino al 1652, non senza nuove difficoltà, sia economiche che ambientali: per ben due volte le inondazioni del torrente Leno danneggeranno i lavori, fino quasi a costringere le sorelle ad abbandonare l’edifico. In ogni caso nel 1650 erano a tal buon punto che si poté procedere con l’erezione canonica del monastero: giunsero da Bressanone due monache che assunsero il governo del monastero e il 3 aprile di quell’anno venne ufficialmente dichiarata la clausura con l’intervento del reverendissimo monsignor vicario generale del vescovato e il molto reverendo padre provinciale dell’Ordine. Alle due monache non fu necessario se non proseguire il principiato. Bernardina, che fino a quel momento si era assunta il governo della casa, lo aveva fatto davvero con cuore virile, come le aveva raccomandato la sua santa madre Chiara.
L’8 maggio 1650 Bernardina, insieme alle sue compagne, prese l’abito della santa religione, assumendo il nome di Giovanna Maria della Croce. Nel nome era significato il suo rapporto specialissimo con l’amato Dio. L’Amore crocifisso chiamava Bernardina a corrispondergli allo stesso modo di Giovanni, il discepolo prediletto, e di Maria, la madre amata: Tu sei Maria e Giovanna, voglio che tu faccia l’ufficio così dell’uno come dell’altro, posandoti sopra il mio cuore, e con i profumi della carità attirerai a te quelle fiamme eterne che hanno arso e in eterno arderanno il Verbo del Padre. E così, ritrovando corrispondenza d’amore, resterà refrigerato il cuore amante di Dio, il quale come cervo ferito va ricercando fonti d’amore e in quelle prenderà sommo conpiacimento.
Ma le prove non erano finite. Da subito si creò una situazione di contrasto fra lei e le due monache brissinesi. Se la definitiva armonizzazione della disciplina conventuale con la normativa tridentina, soprattutto nella dimensione claustrale, incontrava il pieno consenso di Giovanna Maria, così non poteva essere per lo stile di vita improntato alla dispendiosità rispetto alle aspirazioni alla povertà secondo cui il progetto di fondazione era nato e cresciuto fino a quel momento. Il contrasto era sicuramente acuito dalle resistenze che poteva suscitare la forte personalità di Giovanna, sempre accompagnata da straordinari fenomeni mistici. Un ulteriore ostacolo era dovuto alla lingua: le due monache parlavano solo il tedesco, ma nessuna delle sorelle del San Carlo, a parte Sibilla Lodron, intendeva e parlava fluentemente tale lingua. L’esito del contrasto fu che le due monache isolarono Giovanna, non solo escludendola completamente dal governo della comunità, ma anche levandole ogni altro compito. Giovanna registra nell’autobiografia, non senza un’eco della sofferenza patita, che tutte le sorelle l’abbandonarono. Le rimase accanto, fedele alleata, la sola Sibilla. Giovanna giunse a pensare di lasciare il monastero ritenendo di aver adempiuto la divina volontà nel farlo sorgere, concludendo così il suo compito. Fu proprio Sibilla a distoglierla da tale idea, facendogliela riconoscere come una tentazione diabolica. E così, nonostante le difficoltà, l’anno successivo, l’8 maggio 1651, Giovanna Maria assieme ad altre 15 sorelle emise la professione nell’Ordine di Santa Chiara secondo la regola di Urbano IV.
Il 18 ottobre 1655 le due monache di Bressanone lasciarono il San Carlo per tornare al loro monastero, ben prima della conclusione del sessennio indicato nel breve di fondazione. Segno che nel nuovo monastero la vita regolare era stata impiantata, ma segno anche che il conflitto d’autorità che si era venuto a creare infine si era risolto in favore di Giovanna. Infatti le sorelle del San Carlo la elessero come loro abbadessa, confermandola poi nell’incarico quasi ininterrottamente fino alla fine della sua vita. L’unica breve interruzione di un triennio fu per rispettare le norme canoniche.
Nel suo ruolo di abbadessa Giovanna si adoperò particolarmente per improntare la vita fraterna alla forma della povertà francescana. Uno dei suoi primi atti in tale direzione fu persuadere le sorelle a una maggiore semplicità nell’abito religioso. E questo fu fatto comunemente da tutte le madri, senza comando o violenza alcuna, solo esortate che, facendolo, avrebbero fatto un atto di divina volontà.
Attraverso i secoli l’appassionata esortazione di Chiara alle sue figlie presenti e future aveva trovato una risposta nel cuore di Giovanna Maria e delle sue sorelle: E per amore del santissimo e dilettissimo Bambino avvolto in pannicelli poveri, deposto nella mangiatoia, e della sua santissima Madre, ammonisco prego ed esorto le mie sorelle a portare sempre vesti di poco valore (Regola di santa Chiara). Per Chiara e per Giovanna Maria l’abito di poco valore era segno della loro scelta di divenire spregevoli per amore di Gesù di fronte al mondo, sull’esempio di Lui che “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.” (2 Cor. 8,9) quando, incarnandosi, si è vestito della nostra fragile umanità. L’abito di poco valore era il modo per dare spazio corporalmente al Mistero che sorreggeva dal di dentro la quotidianità della loro vita.
La conferma autorevole all’opera di Giovanna Maria fu nel 1665 l’approvazione da parte della Sede apostolica delle sue Costituzioni, che riconoscevano come centro vitale della vita fraterna il tesoro della santa povertà. Nel 1663 nel presentarle concluse alla comunità del San Carlo Giovanna aveva scritto una lettera alle sorelle in cui, esortandole ad osservarle, gliele offriva come la mistica scala di Giacobbe, via per rimanere nel Signore ed essere un medesimo spirito con Lui. Il giorno in cui furono consegnate approvate al monastero la conferma più autorevole di tutte Giovanna la ricevette direttamente dal suo Dio, che le disse, replicandolo più volte: vedi quanto Dio ti ama? Riama quel Dio che tanto ama te. Le chiese anche che fossero tenute in grande venerazione da questo convento e da altri che conforme a questo saranno fondati.

Gli ultimi anni
Gli ultimi anni, trascorsi nella quotidianità apparentemente monotona della vita claustrale, ma in realtà continuamente vivificata alla segreta dolcezza della contemplazione di Dio, furono per Giovanna Maria sicuramente i più sereni, vissuti nella grata consapevolezza della vocazione realizzata. Visse dunque nascosta, ma intanto, come già era successo a Chiara e alle sue sorelle, la sua fama cresceva. Si realizzava quello che il Signore le aveva chiesto nell’eleggerla per sua amante e custode del suo amante cuore: che portasse al mondo le novità del cielo, introducendo le anime al loro Creatore. Divenne sempre più una voce molto ascoltata e ricercata dai grandi e dai piccoli. Giovanna non si risparmiò e profuse il suo impegno non solo nelle vicende del suo monastero, ma dell’intera Chiesa.
Intessuto nella fitta trama ecclesiale del suo tempo, si collocò anche il suo impegno a favore dell’erezione di nuovi monasteri, che dovevano inserirsi e veicolare l’azione riformatrice della Chiesa postridentina. Nel 1668, grazie ancora una volta al sostegno degli Asburgo, riuscì ad avviare la fondazione di un monastero, da intitolarsi a Sant’Anna, a Borgo Valsugana. Nel 1672 gran parte del complesso era pronta e Giovanna Maria progettava di recarvisi personalmente almeno per la fase iniziale dell’avvio della vita comunitaria. Ma le sue condizioni di salute si fecero critiche e davanti all’eventualità che potesse morire lontana da Rovereto i suoi concittadini misero un presidio attorno al monastero per impedirle la partenza.
Il pellegrinaggio terreno della sua esistenza stava in effetti per concludersi. Aveva faticato fin dalla prima ora nella vigna del suo Signore ed ora Egli stava per rivolgerle le parole: Vieni, serva buona e fedele, entra nella gioia del tuo Signore. Morì il 26 marzo 1673, domenica delle Palme. Si compiva così la profezia predettale dal Signore e riportata dalle sue antiche biografie: Verrà l’anima tua a me, come la colomba di Noè, portando il ramo d’ulivo. La sua morte fu annunciata col suono delle principali chiese e della torre civica della città, come si soleva fare solo per la morte del Papa, del principe vescovo, dell’imperatore e del conte del Tirolo. Era un riconoscimento dei suoi concittadini a quanto il Signore aveva operato con la sua vita.
Tanti anni prima fra Tommaso da Olera, contemplando il mistero della flagellazione di Gesù, lo aveva visto in visione soccombere in terra senza che nessuno lo soccorresse in tante pene, finché non vide comparire Giovanna Maria, che, piena di dolore, gli si fece vicino per portagli consolazione. La visione fu di sommo conforto per Tommaso.
Ora Giovanna entrava nella gioia eterna, ma il conforto e la consolazione da lei portata alla Chiesa, corpo ineffabile del suo Signore, continuava.

L’iter di beatificazione
Già nello stesso anno della morte di Giovanna Maria per iniziativa dei frati minori riformati si fecero istanze a Sigismondo Alfonso Thunn, principe vescovo di Trento, perché avviasse il processo di beatificazione. Il vescovo accolse la richiesta e, due anni dopo, dette mandato al suo vicario generale di raccogliere gli atti e le testimonianze necessarie. Nel 1686, chiusa la fase diocesana, gli atti del processo vennero inviati a Roma e, qui esaminati, ottennero nel 1733 il beneplacito di papa Clemente XII per l’introduzione della causa di beatificazione e canonizzazione. Da quel momento Giovanna Maria venne dichiarata venerabile.
Da allora la causa conobbe alterne vicende.
Negli anni successivi non poté essere sostenuta, perché le sorelle del San Carlo non erano in grado di affrontare le spese necessarie per la mancanza cronica di denaro.
A questo punto le vicende del processo si intrecciarono strettamente alle più grandi vicende storiche in cui si trovò coinvolto il monastero San Carlo. Infatti nel 1782 venne chiuso in conseguenza dell’ordine imperiale di soppressione nei domini degli Asburgo di tutti i monasteri degli ordini religiosi contemplativi e di incameramento dei loro beni nell’erario imperiale. Della causa di Giovanna Maria per un po’ non se ne fece più niente.
Ma i roveretani non l’avevano dimenticata, e nel 1869 la causa venne ripresa per poi fermarsi di nuovo nel 1891 fino ad oggi. Nel 1927 al sacerdote roveretano Antonio Rossaro che, appoggiato dal vescovo di Trento Celestino Endrici, tentò di sollecitarne la riapertura, fu risposto che era stata bloccata con la motivazione che le visioni costituivano un grave motivo per non procedere. Giudizio che, emesso nel contesto culturale razionalista, forse oggi può essere considerato superato.
Alla fine del 1782, al momento della sconsacrazione della chiesa del ex monastero San Carlo, i resti mortali della venerabile Giovanna Maria vennero traslati nella chiesa di San Marco con una cerimonia notturna all’insaputa della popolazione, per non ingenerare ulteriori malcontenti verso quella non gradita conseguenza della politica imperiale. In quell’occasione venne compiuta una ricognizione notarile sul corpo.
Nel 1789 gli stabili dell’ex monastero vennero acquistati dal signor Giuseppe Tambosi che li trasformò in macello, ma egli stesso nel suo testamento lasciò disposizioni perché il suo erede edificasse una cappella di famiglia là dove una volta esisteva la chiesa di San Carlo. Nel 1846 la cappella venne edificata e finalmente nel 1925 l’intera chiesa venne recuperata al culto. Il 5 novembre dello stesso anno le spoglie di Giovanna Maria ritornarono “a casa”, accompagnate questa volta da una folla in festa, e vennero collocate in un’urna di marmo, nella quale sono tuttora conservate.

Gli scritti
Gli scritti autografi della venerabile Giovanna Maria della Croce, di proprietà della parrocchia San Marco di Rovereto, sono custoditi nell’archivio dell’ex monastero San Carlo, attualmente sede dell’“Istituto Venerabile Giovanna Maria della Croce”. I manoscritti sono conservati in 16 cofanetti a forma di libro.
Per iniziativa del professor Claudio Leonardi, la SISMEL (Società Internazionale per lo studio del Medioevo Latino) di Firenze ha avviato il progetto di pubblicazione dell’intero corpus.
Attualmente sono stati pubblicati:
* Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libro undecimo a laude di Dio, a cura di M. T. Casella Bise, Firenze 2004 (La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 1).
* Giovanna Maria della Croce, Discorsi per le domeniche di Pentecoste. Libro primo a laude di Dio, a cura di G. Cremascoli – V. Lunardini – R. Sibono, Firenze 2005 (La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 3).
* Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libro secondo e terzo a laude di Dio, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, Firenze 2007 (La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 7).
* Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libro decimo a laude di Dio, a cura di M. T. Casella Bise, Firenze 2009 (La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 15).
* Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libro ottavo a laude di Dio, a cura di M. T. Casella Bise, Firenze 2012 (La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 18).
Precedentemente era già stato pubblicato:
* Giovanna Maria della Croce, Vita, a cura di C. Andreolli – C. Leonardi – D. Leoni, Spoleto 1995 (Biblioteca del Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici in Umbria – Collana diretta da Enrico Menestò, 12).
In quest’ultima pubblicazione è presente una bibliografia pressochè completa degli scritti di e su Giovanna Maria della Croce.
Per una bibliografia parziale si può anche confrontare la scheda consultabile nel sito della Biblioteca comunale di Trento

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