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Interventi di Claudio Leonardi e Carlo Ossola

Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani
della Pontificia Università Antonianum, Roma
Centro Culturale Aracoeli

SEMINARIO DI STUDIO
IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL VOLUME DI GIOVANNA DELLA CROCE
RIVELAZIONI. LIBRI SECONDO E TERZO A LAUDE DI DIO
a cura di Alessandra Bartolomei Romagnoli – SISMEL – Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007
(La mistica cristiana tra Oriente e Occidente, 7 – Sentimento religioso e identità italiana 2)

venerdì, 13 marzo 2009 – ore 17,00

Interventi di:

Alvaro Cacciotti, Claudio Leonardi  (qui di seguito) e  Carlo Ossola (qui di seguito)

Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani – Via Merulana, 124 – 00185 Roma
tel.: 06 70373528 – e-mail: sssmf@antonianum.eu

Centro Culturale Aracoeli – Scala Arce Capitolina, 12 – 00186 Roma – tel.: 06 69763831
fax: 06 69763832 – e-mail: frate.francesco@iol.it


Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni II – III
a cura di A. Bartolomei Romagnoli*
di Claudio Leonardi

Giovanna Maria è una mistica, riconosciuta come tale, anche se la sua fama ha varcato di poco la cerchia della cittadina di Rovereto. Non sono il primo a dire, per altro, che la fede nel Dio uno e trino e nel Verbo che si incarna, è crocefisso e risorge, si estingue se non arriva alla mistica, cioè all’esperienza di Dio (che è espressione di Bonaventura), alla convivenza con lui, alla trasformazione in lui. Come anche Giovanna Maria ripetutamente afferma, riprendendo l’antica definizione, “Dio s’è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”, sia pure per l’unica e stretta via che è il Cristo.

La tradizione romana non ha mai negato la centralità di questo mistero a due movimenti, Dio verso l’uomo, l’uomo verso Dio, salvo forse durante la crisi ariana. L’ha talvolta attenuata e velata, a proposito del secondo movimento. È stato infatti difficile dire che l’uomo diventa Dio, si trasforma ontologicamente in Dio. Questa è tuttavia la fede cristiana, che invita il fedele a sperimentare in sé queste due dinamiche.

Ora il Seicento vive a ridosso della più grave rottura della tradizione cristiana, quella protestante. La tradizione romana mantiene il principio della continuità Dio-uomo e uomo-Dio, per cui è possibile la santità; per la tradizione luterana invece non c’è più continuità, l’uomo non è santo, non compie il bene, non è l’altro Cristo: deve solo credere. Da qui il primato della fede nel protestantesimo, di fronte al primato della carità nel cattolicesimo. La Chiesa tridentina ha tuttavia temuto la mistica, ha cercato di tenerla nascosta e di contrastarla. Atteggiamento comprensibile solo se si tiene conto di due fattori: che il mistico è di solito senza mediazioni ecclesiastiche e, per il Seicento, che il mistico è per il protestantesimo il maggiore scandalo possibile. Di fatto la Chiesa romana non è più un’entità storica universale, da Sud conosce da più di un secolo, d.opo Maometto II, un’eccezionale pressione islamica: Vienna è assediata nel 1529 e di nuovo nel 1683, mentre nel 1571 è lo scontro di Lepanto. Il protestantesimo preme da Nord: e Rovereto è quasi agli avamposti cattolici verso Nord.

Il confronto protestante ha determinato uno spostamento nella tematica mistica o l’ha almeno condizionata. Il tema medievale era il tema della assimilazione a Cristo per forza e virtù dello Spirito, per cui il fedele diventa vero figlio del Padre. Lo Spirito, la carità, l’amore è il momento dinamico della mistica. Verbo-Cristo e Spirito sono i due protagonisti, anche se il cristocentrismo bernardino e bonaventuriano limitano il ruolo dello Spirito e dunque il concetto e la condizione di mistica come convivenza trinitaria. Ora il Christus passus regale bizantino, ma anche il Christus passus redentore dell’Occidente rischiano di non essere più attuali. Le piaghe gloriose del Cristo medievale rischiano di diventare le piaghe dolorose, segno dell’ira divina, del Cristo protestantico, punito dal Padre perché ha voluto mescolarsi con l’uomo. Il Seicento cerca di rompere la possibilità stessa di incorporare qualcosa del dolorismo mistico protestante con la teologia e la devozione dei cuori di Gesù e di Maria. Il cuore rappresenta l’essenza dell’uomo e il suo stesso contenuto, l’amore: l’amore di Dio-Cristo per l’uomo e l’invito a corrispondere a questo amore. Era un tema e un’immagine anche medievale (si ricordi Caterina da Siena), ma ora diventa quello principale: il cuore diventa la più nota rappresentazione del divino, il cuore come assoluto amore, un amore che passa certo per la croce, anzi è il cuore trafitto di Cristo, che è insieme una fornace, una fiamma, una luce che ci accompagna e supera ogni dolore.

Il primo propagatore di questo è Giovanni Eudes, l’ex-filippino di Caen che pubblica nel 1648, ad Autun, La dévotion au Très Saint Coeur et au Très sacré Nom de la bienheureuse Vierge Marie e nel 1672 il libro sul cuore di Gesù. Poco dopo, tra 1673 e 1675 Margherita Maria Alacoque ha le grandi visioni del sacro cuore di Gesù; vedrà il cuore che arde d’amore per l’uomo e gli chiede amore.

In questo modo la tradizione romana riacquista la pienezza del significato di mistica come positività amorosa e ingloba a livello universale anche il grande insegnamento dei mistici spagnoli carmelitani, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce.

È anche singolare che dieci, venti o trent’anni prima dell’Eudes e di Margherita Maria la mistica trentina Giovanna Maria della Croce manifesti nella sua Autobiografia e nelle Rivelazioni (lo stesso titolo del libro di Margherita) un messaggio analogo. È, credo, questo uno degli aspetti significativi della sua mistica.

L’autobiografia[1] iniziata nel 1636 per volere del confessore, fu proseguita fino al 1658: è soprattutto negli anni Cinquanta che la tematica del cuore del crocefisso e della Trinità diventano un solo tema, in una altissima, credo, testimonianza mistica.

«Ma ecco … in un subito fui ratta in grande estasi e il mio amante Cristo mi invitava … andare a lui con molta confidenza, perché voleva venire nel’anima mia e riempire di quela ogni suo vacuo. Da questo pietoso invito s’acese così gran fuoco e ardente brama di Dio che un’ora mi parve mille di riceverlo. Lo riceveti nel santissimo sacramento con grande pieneza di grazie e ardente carità. E esso riempì le tre potenze del’anima, venendo le tre persone divine quali con grande maestà nel suo tempio … E alla sua venuta restò l’anima ripiena di Dio, tuta brilante di incomprensibile gaudio e profondissima contemplazione … In quel santo e profondo silenzio … vedeva le tre persone divine nel più intimo del’anima mia, le quali erano fate abitatrici, anzi signori voluti di questa indegnissima anima». E poco dopo: «L’anima fu con grande veemenza trasformata in Dio e pasò nel divin cuore di Giesù e da quela al seno del Padre … Altra volta … mi rivolsi alla tesoriera delle divine misericordie [Maria] e la supplicai introdurmi al suo virginal cuore, poiché in quelo volevo ricevere il mio amante Iddio con tutto il suo spirito» (p. 377).

Il cuore è il luogo dell’amore; nel novembre 1654 Gesù le dice che molte volte i Padri e lui stesso hanno parlato «sopra l’apertura del mio cuore», e aggiunge: «ma una ne farò anco nota a te ed è questa: che riserbai quel poco sangue e aqua nel mio cuore per quele anime che mi servono con purità di cuore e di corpo» (p. XLIII).

Le citazioni sarebbero troppe. Ma una cosa va aggiunta: perché la legge della mistica è certo la trasformazione ontologica dell’uomo e della sua anima in Dio, ma questo passaggio avviene attraverso la morte, l’annichilazione, la piena rinuncia a se stessi, non solo (e tanto) al peccato, ma a se stessi, dunque al proprio cuore pur così invaso di divino: «entrorno nella … anima mia tute tre le divine persone, e dise ‘Ora, figliola, mi amerai senza cuore’». La vergine Maria «ti à insegniata fare gli tuoi esercizi spirituali nel suo cuore, il medesimo ti ha insegniata facia nel mio cuore e col cuore del suo unigenito Filiolo. Adunque non sarà più necesario il tuo, perché in questi farai la tua stanza … non le resterà far nula, quando il Padre, il Filio e Spirito Santo abiterà in quelo» (p. XLIV).

L’autobiografia uscita nel 1995 è raccolta in tre grosse cartelle, tre delle 16 di tutto il lascito di scritti di Giovanna: tutti sino a poco fa inediti e autografi. Dei 13 rimanenti ne abbiamo pubblicati solo 4, a cura di G. Cremascoli, di M.T. Casella, che ha già consegnato un altro volume, e questi 2 di A. Bartolomei Romagnoli. Non è possibile ora presentare i volumi di Cremascoli e della Casella Bise (che è un po’ l’eroina di queste edizioni, sta infatti preparando un terzo volume),[2] ma devo dire ancora qualcosa del volume curato dalla Bartolomei Romagnoli. Giovanna l’ha scritto tra il 1640 e il 1643, quando è da poco iniziato il conservatorio ed è sottoposta all’inquisizione, anni tormentati e molto faticosi.

Sono due libri pieni di «colloqui con Dio, visioni, contemplazioni, trasformazioni»,[3] di cui sono protagonisti Dio uno e trino, il Verbo incarnato, Maria, santi e, certo, lei stessa. Giovanna parla naturalmente con Dio e Dio stesso le dice lo scopo di queste rivelazioni: «… tu che sei per mia special gracia vocata per udire le divine inteligenze» (p. 41), cioè per riferire, avendole udite, le opere divine, il mondo in cui Dio esiste, il senso divino della vita. Ci sono per altro molti dialoghi tra Cristo e Maria, s’intravede come questo parlare umano-divino tra Cristo e la madre significhi il parlare possibile tra Dio e l’uomo, di cui la vergine è il prototipo e il vertice. Non a caso il tema principe dei due libri è l’incarnazione e nascita di Cristo e la sua passione e crocifissione, gli eventi iniziale e finale dove la Vergine è coinvolta. E queste «intelligenze divine» riguardano, con la vita in Dio, i modi che ha l’uomo per trasferirsi in Dio, il solo bene dell’uomo: «io altro non dimando, Padre di misericordia, che te stesso» (p. 21) e Dio risponde che il suo segreto sta nel suo voler “farvi novi deii in tera per partecipatione” (p. 66), farvi diventare in me e per me un altro me stesso. Ma questo come può avvenire? Avviene per il passaggio necessario della morte – come accennavo: la morte fisica è seguita dalla resurrezione, così la morte mistica è seguita dall’amore divino e all’identificazione con Dio. Una sola frase: «Crocifigetemi, Giesù mio, ma voi sarete la mia croce, et in voi confitta viverò, et trasformata» (p. 380). Il desiderio di Dio e l’amore per lui è accompagnato dalla coscienza che Dio desidera essere amato dall’uomo: «non mi meraviglio, no, che la creatura sia innamorata di te, ma questo sì che è maravilia, che Dio sia innamorato del gener umano» (p. 51), Così il tema dell’amore si accompagna al tema dell’annichilazione in modo permanente: solo quel tipo di morte permette il vero e pieno amore e tutta la gioia, il senso di pienezza e compimento che dà l’amore: «…mi sentii scocare l’amoroso et infocato dardo nel mio indegnio cuore e l’anima mia si liquefaceva d’amore, rimanendo il spirito mio asorto in Dio» (p. 57). In questi due libri il momento trinitario è meno sviluppato di quanto sarà nel decennio seguente e nei successivi, è tuttavia presente per così dire nel sotterraneo per apparire emblematicamente di tanto in tanto: «O amore, Spirito Santo paracleto, unisimi con quella unione d’amore, con la quale resti unita al Padre e al Filio e a te. Unisi, ti suplico, il cuor mio con voi, Trinità santissima» (p. 70).

Questa presenza è importante. Nella storia della mistica può prevalere di fatto una coscienza cristocentrica dell’incontro uomo-Dio e Dio-uomo. È la mistica dell’incontro nuziale (si pensi a Bernardo), oppure la mistica della sapienza divina partecipata nella tenebra della coscienza (come in Bonaventura). Ma questi non sono i vertici della mistica, in cui non sono qualità divine ad incontrare condizioni o qualità dell’uomo, come la sapienza e l’amore, ma l’uomo stesso è divinizzato. Questa mistica ha una coscienza trinitariocentrica. Per Guglielmo di Saint-Thierry, la vera e profonda esperienza di Dio avviene per lo Spirito di Dio che genera nell’uomo il Verbo, che così diventa figlio del Padre. Così Francesco d’Assisi testimonia una mistica trinitaria, come poi i mistici renani e, più vicini a Giovanna, i carmelitani spagnoli. Per Giovanni della Croce il centro stesso dell’anima è Dio uno e trino: il profondo dell’uomo rivela già, a lui unito, il divino. La mistica di Giovanna, la sconosciuta roveretana, pare mostrare, almeno per quello che sinora di lei si può sapere, una coscienza trinitaria riscoperta nel Christus passus, nel cuore del Cristo crocifisso, in cui le piaghe risplendono ancora una volta gloriose e splendenti: uno splendore e una gloria che si rifrangono nell’anima e nell’essere dell’uomo. Questo volume della Bartolomei Romagnoli è una tappa importante della conoscenza di questa donna e di cosa significhi nella storia della mistica cristiana. Anche per questo la ringrazio.
Claudio Leonardi
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Pubblicato in Claudio Leonardi, A proposito di Giovanna Maria della Croce. Rivelazioni. Libri secondo e terzo a laude di Dio, in Frate Francesco 78 (2012) pp. 479-483.
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* [Conferenza tenuta a Roma il 13 marzo 2009 presso la Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum, al Seminario di studio in occasione della presentazione del volume Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libri secondo e terzo a laude di Dio, a cura di Alessandra Bartolomei Romagnoli, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2007 («La Mistica cristiana tra Oriente e Occidente», 7).]
[1] Giovanna Maria della Croce, Vita, a cura di Claudio Leonardi, Cristina Andreolli e Diego Leoni, Spoleto, CISAM, 1995.
[2] Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libro undecimo a laude di Dio, Editio princeps a cura di Maria Teresa Casella Bise, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2004 («La Mistica cristiana tra Oriente e Occidente», 1); Giovanna Maria della Croce, Discorsi per le domeniche di Pentecoste, a cura di Giuseppe Cremascoli, Valentina Lunardini, Rosanna Sibono, ivi, id., 2005 (stessa collana, 3); nel frattempo sono poi usciti, a cura di Maria Teresa Casella Bise, il Libro decimo e il Libro ottavo delle Rivelazioni, rispettivamente nel 2009 e nel 2012 (stessa collana, 15 e 18).
[3] Così la Bise in Giovanna Maria della Croce, Rivelazioni. Libro undecimo a laude di Dio, cit., p. ix.


Giovanna Maria della Croce e i cammini della mistica
di Carlo Ossola

La mistica: voli, rapimenti, estasi, e insieme baci e palpiti e corpi. Non si potrà mai capire il fascino di quell’incarnarsi ed elevarsi che per secoli ha intrecciato l’umano e il divino, senza partire da questo resoconto di Giovanna Maria della Croce (1603-1673; della quale il SISMEL ha pubblicato le Rivelazioni. Libri secondo e terzo a laude di Dio, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, Firenze 2008): «In un istante incominciò l’eterno Signore a levarsi da terra, et era sopra una pietra nella quale restò imprese le sue sante piante et in un momento salì tanto alto che più non si discerneva et era in mezzo d’un grandissimo splendore, e di più aparendo una candida nuvoletta lo coperse…». Il Cristo ascende, scompare nel candore d’una nube eppure ci lascia sulla roccia l’impronta dei piedi, secondo una tradizione – osserva con elegante erudizione la curatrice – già attestata da Paolino di Nola e da Beda: «Christum autem Dominum sacra sua vestigia in loco ascensionis reliquisse, non solum habet sanctus Paulinus Nolae Episcopus, sed idem refert Beda» (Molanus, Historia SS. Imaginum). Sarebbe questo il feticismo della superstizione cristiana, il culto delle reliquie, il bisogno sempre di ‘reificare’ il credere? No, la memoria umana è più lunga e profonda dei suoi atti tardivi di scrittura e di interpretazione: chi oggi salga lungo i sentieri alpini della Vanoise, troverà ancora, a due ore di marcia dal rifugio di Vallonbrun, sullo sprone di roccia che culmina verso il cielo a 2700 metri, l’impressionante «Pierre aux Pieds», che vede salire appaiati verso il fastigio 82 piccoli piedi scavati, nella roccia compatta, sin dal Neolitico: preghiera votiva verso il cielo, slancio nell’aldilà del visibile, cammino verso la luce di vita?
La mistica questo attesta, più in profondo che la “giacitura” dei Testi in che si fa consistere il rivelato: che l’uomo, da quando abita la terra, la abita camminando nel cielo, a vedere non i baleni e le tempeste e i turbini, ma solo la «refezione de’ beati»: «E in tal mentre molte volte veniva la mente mia rapita al cielo a veder la refezione de’ beati che avevan in veder Dio facia a facia, et in quelo rimanevo somersa».
Quando si leggano con adesione, filologica e umana, queste Rivelazioni e tanti altri resoconti mistici del Seicento europeo, si rimane sorpresi da quanto in profondo abbia agito in noi la Riforma della sola littera: non sappiamo più ‘vedere’ il divino, attendere la Visitazione, vivere nella «naturalezza del soprannaturale», come ebbe a definire Eugenio d’Ors, accedere alla semplicità della bellezza: «Una volta, elevata l’anima alle divine inteligenze, mi ritrovai in spirito nella santa casa della Madre di Dio e vidi come il suo santissimo filiolo la visitava, et era nella sua bella età delli trentetré anni. E non si può con la lingua umana esplicare la sua inconprensibil beleza».
La bellezza è, in tutte le opere di Giovanna Maria della Croce, un segno effusivo del «gran nome di Dio » [ Vita, III, p. 389]: emana da una catena – di ascendenza neoplatonica – di “dignità” e “magnificenze” delle quali gli angeli sono ministri. La visione delle gerarchie angeliche è una mirabile parata della corte celeste:

Le dominazioni vestono color dorato, di tanta inestimabil beleza ch’è incredibile, e questi sormonta li altri in beleza e numero e varietà di gloria. […]
Il cuoro de li principati porta livrea di porpora e portano corone regie. Sono li préncipi de l’umanità santissima, e per impresa portano scolpita nelle loro fronti, gioie e abiti, la pasione di nostro Signore.
[…] Le potestà porta livrea verde, e questi ancora sormonta li altri in grandeza, beleza e numero e varietà. O divina grandeza, che deletazione è vedere tanto numero di beelza che pare infinita, e uno non esser come l’altro! Visto uno, pare che non sia posibile vi possi esser beleza maggiore, epure sempre più va quela crescendo.
Il cuoro delli cherubini porta color bianco ribatuto da un incarnato risplendentissimo come fuoco; e è quela livrea di tanta gran beleza che è inesplicabile e incomprensibile, avanza tuti li altri in numero, maestà, beleza, etcc. Chi potrebe esprimere la loro gloria, la magnificenza, e pregio dele loro corone e gioie preziosissime, l’amore che le porta il grande Iddio? O Dio, è inesplicabile!
[Vita, III, pp. 389-391].
Siffatta epifania della bellezza conferisce un accento speciale alla mistica di Giovanna Maria della Croce, lontana delle vertigini degli abissi pascaliani. La rottura tra il mondo della dannazione e l’elezione della Grazia non si è ancora del tutto consumata: aleggia ancora la serena contemplazione proposta da François de Sales. È un Dio di misericordia che distribuisce con abbondanza i suoi favori, mirabilmente evocato – con pointes barocche – in un passo ove campeggia il fervore di Tommaso da Bergamo (1563-1631) e il suo «fuoco d’amore»[1]:
vi era anco il venerabil padre Tomaso da Bergamo capucino, che similmente faceva orazione con il suo serafico spirito e profetizò di quelo che più avanti ne ò parlato. E ora, essendo morto di molti anni, si forma processo della sua vita per li miracoli che fa. E venendo questa dona, le racontò quello che veduto aveva, ed esso elevato in spirito disse: O fuoco, che sei a guisa di quelo della Pentecoste, perché quelo va divisando l’abitaculo suo, dovendo esser questa casa delle sue dilette spose, quali saranno abitaculi dello Spirito santo. O casa di delizie, dove Iddio diluvierà le sue misericordie e pasegierà in quella come in florido giardino!
[Vita, II, p. 230].
Iddio «diluvierà le sue misericordie» come, altrove, sarà un’estasi di «sviserato amore» (Vita, III, p. 371): nondimeno, in questo cosmo di bellezza e di grazia, pure s’insinua la tentazione, anch’essa “bella”, nei modi stessi che, in anni vicini, Giovanni Bona aveva contemplato nel suo De discretione spirituum (Roma 1672, 1673, etc.):
Alli 29 giugnio 1646, tra la vigilia e il sonno, parevami ritrovarmi sopra un alto monte in romitorio, molto contenta in quella acra solitudine. In quelo vi era due picole stanzete, l’una sopra l’altra, e in quella di sopra s’asendeva per una scala. E stando io in quella quiete, sento asendere la scala da multitudine di gente, e alora parve il mio interno contremisse, e tuta quella gran pace sparve dall’anima mia. E vedo salire alcuni angeli in forme umane, come belissimi gioveni vestiti di candide vesti con stole rosse e di altri colori risplendenti, con capelli rizadi che parevano fila d’oro, aconci con diabolico artificio. E io con occhi torbidi mi posi a mirarli, e poi […] rivolta ali demoni con imperio diceva: O angeli dele tenebre, lasiate queli abiti di luce, ché queli a voi più non si conviene, scopritevi per queli che sete! […] Alora sparve tutti li angeli e solo rimase uno in forma di gatto, grande e di brutisimo aspeto, e quelo mi asalì per mordermi e con le diaboliche ungie sgrafarmi. [Vita, II, p. 310].
Bellezza e pace: in essa si compone anche la vena poetica di Giovanna Maria della Croce, che sa ritessere la memoria biblica in un ritmo pacato di serenità e letizia filippina, di iucunditas umanistica, lontana dallo “svuotamento” delle parvenze che porterà all’annihilatio quietista:

Bela cità del cielo richa et adorna,
di gemme e d’oro tuta fabricata.
Bem sei del mio Signor richo soggiorno
E di quest’alma mia pegno giocondo.
[…]
Adorna sei come sposa reale,
lieta e festosa di soma alegreça.
(Rivelazioni, II, cc. 93-94, p. 76).

Tutta la tradizione dei Fioretti francescani ritorna, anche nei più celebri exempla, come quello della “laude” tributata dalla cicala:

È ver che raucho sarà il mio cantare,
come quel di cicala al caldo estivo,
rispeto di quel canto de’ beati
che mai non cesan Iddio benedire
(Rivelazioni, III, c. 299, p. 404).

Si potrebbe dire, anzi, che Giovanna Maria della Croce porta a compimento – nella sua mistica fiorita, variopinta, tutta dolcezze saporose [«Favi di miele parmi masticare in quelle sillabe santissime», Rivelazioni III, p. 365] – quel trionfo barocco dell’apoteosi umana che invola e esulta, e fa ascendere al cielo tutta la natura creata, già assunta nell’Incarnazione come coprendo «gli splendori della tua divinità sotto la candida nuvoletta dell’umanità santissima» (Rivelazioni, II, p. 51). In quella «candida nuvoletta» dimora la memoria di una cultura iconica “affettiva”, tramandata dagli Apocrifi, e che nessun “probito comprendere” – come si ama oggi predicare a gran trombe dell’età tridentina – ha mai affievolito né attenuato nella «memoria collettiva» (Halbwachs) del credere:
Io mai la vidi [scil. Maria madre di Dio] sedere sopra l’asinello, come viene comunemente dipinta, ma bem si vi fece sedere il suo amato sposo Gioseffo, come quela che ardeva di carità. E di più l’asinelo era caricho delle cosette del santo bambino, come fasce, panicelli, etc. [Rivelazioni, II, pp. 146-147].
Ecco, tutt’insieme, manifestarsi la premura zelante della donna che era stata maritata, il sorridente orgoglio di una “carità” di donna attiva, che non aveva bisogno di quel riposo, tutto per vecchi maschi e stanchi, il gremito accedere al primo piano delle “cosette” del quotidiano, come se davvero Giovanna Maria avesse visto il Caravaggio o gli interni di Vermeer. È un «santo presepio» (ivi, p. 144) di fasce e tenerezze domestiche, prima ancora che nella nascita di Gesù, sin dal quadretto ammirevole di Anna e Gioacchino mentre contemplano la nascita della Vergine (ivi, pp. 86-87). Anche quando Giovanna Maria tocchi i punti più dolenti della controversistica o dell’apologetica contemporanea – come il Simonino di Trento, “santo martire” innocente, la cui morte venne a pesare, allora e ancora nella storiografia odierna, sulla comunità ebraica – ella si astiene da ogni giudizio e solo contempla quell’ “aurorale” dolcezza (ben simile alle ottave della Strage degli innocenti del Marino) di un sacrificio in Eden, di un’oblazione nei giardini stessi dell’eterna letizia:
E chi potrà mai farti capace quanto grandi sian alora le dolceze di quei cori virginali? O santa et immaculata virginitas, quibus te laudibus eferam nesio. Di questo cuoro è il santo Siomone inmnocente di Trento, e sono questi innocenti capi di quelli bambini che movono in quella inocenza. [ivi, II, p. 109].
Afasia di un popolo minuto, che non cerca né giustizia né compimento, poiché sempre è gaudioso, «a bocca piena», come si esprime con efficacia Giovanna Maria:
E vedendo la bambina, rimanevano amirati di tanta insolita beleza, e da quella rimanevano rapiti che non si sapevano parlare. Canti pur santa Chiesa a bocha piena: Nativitas tua, Dei genitrix virgo, gaudium anunciavit universo mundo. (ivi, II, p. 87).
Come nei presepi provenzali, o napoletani, la mistica è figura e figurata dal ravi: dal pastore inebetito e rapito, inebriato e contemplante, ebete e come paralizzato; rapimento, estasi, ebrietas e nescientia dello slancio, élan, mistico, che “spiomba” – direbbe Mario Luzi – dalla misurata regula e avvia alle vertigini dell’ “esser fuori di sé”, in contesa con il mondo, in attesa.
È, tutto il meravigliso e rilevato diario di coscienza e di visioni di Giovanna Maria, un testimone rarissimo – nella storia della spiritualità e nei testi della letteratura italiana – di jubilatio, nel senso che definiva lo straordinario vocabolario, alla metà del Seicento, di Maximilianus Sandaeus, Pro theologia mystica clavis:
jubilatio. Est testificatio insolentis gaudii per vocem minus cognitam et perceptam, aliquando etiam inconditam.[2]
Testificatio insolentis gaudii: tutta la mistica è qui: nel traboccare – insolito e dunque insolente – di una letizia che non si sa controllare, che non ha misura: mosto novello delle nozze di Cana.

Carlo Ossola
Monsieur Carlo Ossola
Professeur au Collège de France
11 Place Marcelin Berthelot
75005 Paris

Pubblicato in Carlo Ossola, Giovanna Maria della Croce e i cammini della mistica, in Forma sororum, 46 (2009), p. 149-154

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[1] Tommaso da Bargamo, Fuoco d’amore, mandato da Christo in terra per esser acceso, ouero amorose compositioni di fra Tomaso da Bergamo, Agosta, appresso Simone Vzschneider, 1682. E di nuovo in Napoli, per Francesco Benzi, 1683.
[2] M. Sandaeus, Pro theologia mystica clavis, Coloniae Agrippinae MDCXL; reprint: Heverlee – Louvain 1963, p. 259.

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