Quando la Risurrezione è in agguato! Testimonianza vocazionale a sr. Maria Anastasia

Pubblicato giorno 19 Luglio 2023 - ARTICOLI DEL BLOG, Testimonianze vocazionali

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Vi presentiamo la testimonianza di sr. Maria Anastasia Zampieri. E’ nata a Belluno da mamma Candida e papà Antonio, ed ha due splendide sorelle, Renata e Michela e uno splendido fratello, Virgilio. Ascoltiamo la sua storia!

In questa intervista partiamo dalla fine: il tuo nome di battesimo è Sonia, ora invece ti chiami Anastasia. Come mai questa scelta?

Poco prima di entrare in monastero cercavo un nome che potesse dire in qualche modo la mia storia. Un giorno mentre ero a casa di un’amica che aspettava un bimbo, ho sfogliato con lei uno di quei libri per la scelta del nome del nascituro, e ho trovato il nome Anastasia. Oltrea essere molto bello ha un significato particolare: deriva dal vocabolo greco ἀνάστασις, anastasis che significa Risurrezione. Mi sono rispecchiata molto nel significato di questo nome perché per me l’incontro con Dio è stato proprio una risurrezione, la scoperta impensata di un’altra vita, la possibilità di vivere una vita piena.

Il tuo cammino vocazionale è cominciato con la tua conversione, iniziato quando avevi quarant’anni: non è una cosa molto frequente. Vuoi raccontarci qualcosa della tua vita e del tuo incontro tardivo con il Signore?

La mia vocazione è nata quando avevo 41 anni, mentre assistevo mio fratello.

La mia vocazione è un dono suo: il più grande.

Fino ad allora avevo vissuto – un po’ nella mia città, Belluno, un po’ in giro per il mondo – una vita intensa, piena di attività, di interessi, di ricerca, di gioia e di dolori, affrontati da sola, senza Cristo, senza fede. Lavoro, amicizie, la casa, i viaggi, ero libera di fare ciò che volevo; ma, in fondo, ero infelice.

Lo ero perché mi mancava l’amore, quello con la “A” maiuscola: perché quell’amore lì riempie la vita. La assesta, le dà significato. Non c’era e mi mancava.

Ora, dopo che ho incontrato Gesù, so che trascinavo i giorni e che erano pesanti, ma sembrava che andasse bene così. Poi Virgilio, mio fratello, si è ammalato ed è stato standogli accanto, respirando il suo amore che permeava tutto nonostante la morte si facesse vicina, che ho cominciato a farmi domande, a guardare meglio la realtà, a stare. Stare in quel punto di domanda che per lui era un punto esclamativo: lui mi affermava una risposta che io non avevo ancora trovato.

Mi chiedevo: ma come si fa a essere così? Mio fratello era credente, credeva in Gesù Cristo e ora so che la sua forza gli veniva da Lui.

Un giorno mi ha passato il testimone senza dire niente, senza fare niente, solo stando lì, portando la sua sofferenza, offrendola… Un istante, un lampo di consapevolezza… e ho compreso che la mia vita non sarebbe più stata la stessa. Ero già cambiata, vi era entrato Gesù Cristo. Si era letteralmente squarciato il cielo dell’anima e ho avuto la certezza che mio fratello era salvo. Che c’erano speranza, vita, amore per l’eterno dei giorni.

Mi toccò profondamente la tenerezza di Dio e, nello stesso tempo, la crudezza della Croce; eppure per la prima volta ebbi la certezza che con mio fratello ero stata salvata anche io. Noi tutti.

La mia vocazione è nata così, è un dono di mio fratello, l’ultimo, il più grande dono che un essere umano possa ricevere.

Matrimonio di Virgilio e Patrizia: la famiglia Zampieri

Un anno e mezzo dopo, con un po’ più di conoscenza di Gesù e della preghiera (non conoscevo il Padre nostro!), grazie alla vicinanza, all’insegnamento e alla pazienza del mio padre spirituale e caro amico don Francesco, e dopo aver fatto la cresima, sono arrivata al Monastero San Damiano. Ricordo la scommessa di alcuni amici: non mi davano più di sei mesi! … e sono passati 12 anni!

Il mio caro padre mi disse a questo proposito: “Loro conoscono te, ma non conoscono Dio”. È l’Amore, infatti, che mi ha tenuta e mi tiene qui!

Cresima di Sonia: con don Francesco e la madrina Patrizia

…Dodici anni di passi avanti, di cadute, di attese, di desideri, di cambiamenti. Di consapevolezza del dono ricevuto che mi prende sempre all’improvviso e mi lascia con quelle certezze che sono luce di Dio sulla fatica della risposta umana. Fatica mia a lasciar andare, a dire sì. Fatica: perché accettare un cambiamento così radicale a 41 anni è stato duro. Ero già formata a modo mio, con le mie abitudini (…e non le ho ancora perse tutte!), con la certezza che mi ero fatta da me e mi sarei sempre arrangiata da sola, come in passato.

Quali domande avevi in cuore quando hai incontrato il Signore? Tu hai sempre cercato qualcosa, sei sempre stata in ricerca: cosa cercavi?

Per tutta la vita ho cercato qualcosa che fosse al di sopra dell’uomo perché mi rifiutavo di pensare che l’uomo fosse fine a se stesso. E quindi ho cercato, attraverso molte esperienze e anche in altre religioni, una dimensione che potesse completarmi. Ma mi sono accorta che questa ricerca aveva un limite: quello di cercare qualcosa di umano. Quindi ho avuto un sacco di delusioni e non ho trovato quello che faceva per me, non mi sentivo appagata, sentivo che la ricerca non era conclusa: continuavo a cercare, finché ho incontrato Gesù Cristo e mi sono fermata.

Perché?

Perché in lui ho trovato la risposta alle domande fondamentali che avevo da sempre.

La prima domanda che avevo in cuore era se esistesse un posto che fosse casa e dove poter tornare. La casa vera, infatti, non è qui, è da un’altra parte.

La seconda domanda che mi facevo era mossa dal bisogno urgente, che mi abitava fin nelle midolla, di essere salvata. Io ho sempre creduto e sempre crederò che l’essere umano ha bisogno di essere salvato. Ma di una salvezza che sia reale, concreta, non fondata su basi umane. Trovando Cristo ho trovato questa salvezza.

Puoi spiegare perché per te trovare Gesù è stato trovare casa? Di cosa è fatta questa casa che hai sempre cercato e ora hai trovato?

La casa che ho sempre cercato è quel luogo in cui un Uomo, Gesù, ti dà la possibilità di essere te stessa e, attraverso ciò che ci ha lasciato, la sua Parola, l’esempio della vita, tutte le realtà della fede, ti riempie di dignità e di senso.

Casa è il luogo dove uno sta bene, si sente amato, accolto, perdonato, anche, corretto spronato ad andare avanti a conoscere, a investigare, a non arrendersi, a non lasciare cadere le domande che la vita suscita in cuore. Solo quando arrivi a casa, trovi le risposte.

Tu hai trovato Gesù, hai trovato in lui il Salvatore, ma cosa c’entra santa Chiara, cosa ti ha attratto verso di lei?

Mi ha attratto san Francesco! Prima di conoscere santa Chiara ho conosciuto san Francesco! È un santo che mi ha sempre fatto compagnia nella vita, da molto prima della mia conversione. Apprezzavo di lui il percorso umano, la sua umanità che invita fortemente a seguirlo.

Quindi in qualche modo è san Francesco che ti ha scelto… sono i nostri amici santi che ci scelgono!

E ora, dopo 13 anni che sei in monastero, ci dici come vivi la preghiera?

Io vivo la preghiera come un dono, come un atto di espropriazione da me: quando prego io non c’entro; non nel senso che non sono presente o che perdo il contatto con me, ma che non sono distratta da questa cosa ingombrante che sono io. Non sono distratta da me.

La vera preghiera infatti è essere raccolti in sé, è essere presenti a se stessi, pienamente, ma non stando al centro. La preghiera è un dono che si fa all’altro, sia che sia Dio o che sia la persona per la quale preghi. E non mi sento migliore di altri per questo.

Pregare è fare esperienza di essere in qualche modo “rapita” per il  fatto che “quello che sto  pregando” – a parole o anche in silenzio, o solo col corpo – va da sé dove deve andare: non è un attività mia, è una relazione che vive in me grazie allo Spirito Santo che prega in me.

Tu sei una persona spontanea e dotata di un carattere ilare. Ma la malattia non è mancata nella tua vita: cosa hai imparato dall’esperienza della malattia?

La prima cosa che ho imparato è che vivere la malattia senza Cristo spalanca davanti l’abisso del morire per sempre: finché non è entrato Gesù nella mia vita, la paura della morte mi ha sempre preso come un vortice che mi tirava in basso. Non avevo ancora incontrato Uno, il Solo anzi, che ha messo fine alla morte.

La malattia, in questo senso, è stata per me una strada per imparare a guardare la vita, l’altro in modo diverso. Aiuta forse a diventare più empatici, anche col rischio di coinvolgersi troppo in situazioni in cui occorrerebbe tenere le distanze per essere davvero d’aiuto.

La malattia porta con sé un rapporto diverso del proprio corpo: ti fa capire che il tuo corpo non ti appartiene, che non lo governi tu. Perché il corpo si ammala, si incancrenisce a volte, muore; a volte è un estraneo, perché tu non lo vorresti così, ma così Dio me lo ha dato e così lo vivo.

Passando per la malattia con Gesù impari a muovere le mani, i piedi, secondo un fine che è diverso, non più segnato dalla morte come parola ultima. Sono certa che non è necessario passare per la malattia personale per cambiare il modo di pensare, di guardare il mondo e la vita: basta anche vivere accanto a chi sperimenta la malattia.

Vivere la malattia con Dio fa sì che la malattia e la morte diventino la possibilità di vivere in modo nuovo: non intendo solo la vita eterna, ma proprio vivere QUI una vita che ha una qualità diversa, più ampia, vera, profonda. Che permette di essere, di esistere diversamente.

Dicci una parola che parli alle giovani che sono in ricerca della loro vocazione e che, similmente a te che sei passata attraverso vicende non semplici, vivono in un tempo che è particolarmente complesso.

Direi loro anzitutto di cercare di fare chiarezza in se stesse, senza puntare tutto sulla dimensione spirituale come se Dio fosse un essere magico che risolve i problemi.

Per seguire il Signore bisogna conoscersi, sapere chi siamo. Occorre conoscere e accettare i propri limiti; accettare e cercare di risolvere i propri problemi: perché se non si ha una sufficiente conoscenza di noi stessi è difficile che le esigenze della fede prendano tutta la nostra carne, tutta la nostra storia per farne una testimonianza di Lui.

Questo lavoro su di sé rende più veri, poveri e spogli di tante illusioni; e allora è possibile incontrare veramente il Signore e non la proiezione dei tuoi desideri o bisogni.

Hai trovato Gesù e hai trovato anche la Chiesa: cosa vuol dire per te la Chiesa a partire dal tuo vivere in comunità?

Gesù è morto ed è risorto: è morto per me e risorto per me perché io lo testimoni. Ha voluto che i suoi discepoli continuassero la sua opera di rivelazione; ha lasciato la Chiesa a disposizione dell’uomo perché l’uomo conosca il Padre, il suo amore e tutta la storia della salvezza.

La comunità poi, per me, è la mia porzione concreta di Chiesa: mi aiuta a crescere, mi mette sempre davanti a me stessa e ai miei limiti, perché io osi con fiducia la conversione e la richiesta di perdono donandolo a mia volta. La Chiesa e la comunità mi aiutano a confrontarmi col Vangelo, quel Vangelo che abbiamo scelto di vivere comunitariamente. Il Vangelo è la totalità della vita per noi che abbiamo scelto la clausura e la vita contemplativa.

Questa vita di comunità-Chiesa è per me un respiro: è davvero un polmone.

Il polmone della comunità funziona come il polmone del corpo: a volte il respiro si fa affannoso, a volte è così largo che si percepisce l’immensità. Ma questo è normale: accade così sia nella Chiesa, sia nella comunità, sia nella coppia e nella famiglia.

A volte ci si disinnamora, a volte si è stanchi e non si ha voglia di pregare. La comunità serve proprio a “tirarci” fuori dal nostro ripiegamento e dalle nostre stanchezze.

Non sono due cose separabili Cristo e la Chiesa, perché noi viviamo con le persone: non ci disincarniamo perché abbiamo scelto il Signore! La Chiesa è fatta di persone, quelle persone che siamo noi!

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