Mio Figlio.
È morto mio Figlio.
Me lo aveva predetto Simeone al tempio che una spada mi avrebbe trafitto l’anima e ho custodito questo mistero come un monile prezioso. Diverse sono state le spade che in questi 33 anni hanno ferito la mia anima, ma quella di ieri… quella di ieri è stata lacerante, mai avrei pensato di soffrire così tanto. Vedere mio Figlio così maledetto da tutti, Lui il Figlio dell’Altissimo, mi ha procurato un dolore inimmaginabile. Ho cercato di stargli vicino come ho potuto. Lo so che il vedere la mia sofferenza ha in un certo senso aumentato la Sua, ma ho visto nei suoi occhi la gratitudine piena di amore per avere condiviso con Lui tutto sino alla fine. Ora mi viene da pensare oltre la fine. Lo so tutti sono smarriti e disperati per la perdita del Maestro, ma io so di non aver perso mio Figlio. Ho aspettato nove mesi che il Verbo nella mia carne venisse alla luce e potessi vederlo con i miei occhi, ora aspetterò tre giorni, tre lunghi giorni che la Vita stessa, più reale del reale, venga. Sì, venga! Lo so che le sue parole erano vere quando sosteneva che dopo tre giorni sarebbe risorto. Anche Giovanni questa volta è scettico, mi guarda con occhi di commiserazione in silenzio, non volendo accrescere il mio dolore affermando che il tempo della speranza è finito, morto con Gesù. Io lo guardo e riconosco in lui mio Figlio. Ho deciso che solo il silenzio ricolmo di speranza per una relazione che non è morta, è la strada da percorrere oggi. Come assomiglia questo grande silenzio al silenzio di quella notte di 33 anni fa. Tutto era avvolto dal silenzio, quando Giuseppe e io ci siamo allontanati dalle case per rifugiarci nella grotta che ha accolto la nascita di nostro Figlio, il Salvatore. Giuseppe era di poche parole, attento a tutto per sollevarmi da qualsiasi disagio, quella notte era anche un po’ frustrato per come erano andate le cose, ma era bastata una mia parola di conforto e di pace, che andava bene così e che l’Altissimo aveva preparato ciò che riteneva meglio per la nascita di Suo Figlio, perché si tranquillizzasse e aspettasse con me il momento del parto. Ecco, eravamo in due ad aspettare. Oggi sono sola. Ma penso che questo oggi non finisca qui e che questa solitudine e attesa sia abitata da tutti quelli che nei secoli futuri faranno memoria di questo giorno e lo vivranno non da disperati, ma in trepida attesa, sapendo che il Signore certamente risorgerà.
Me lo rivedo bambino, quando con entusiasmo veniva a mostrarmi le cose nuove che aveva trovato nelle sue avventure per il circondario. Era sempre sorridente, tranne quando vedeva negli altri bambini qualche ingiustizia, allora anche se era il più piccolo, con solennità affermava: “Così non si fa, non piace a Dio”. Gli altri rimanevano imbarazzati e non avevano il coraggio per rispondergli, perché riconoscevano che quelle parole erano vere, non dette con rimprovero, ma con sostanza di vita. Ogni sua parola era un invito al bene. Poi ricordo la prima volta che suo padre gli insegnò a usare il martello. Era concentratissimo, seguiva ogni parola di Giuseppe come se fossero le cose più importanti da pronunciarsi sulla terra. Il chiodo al primo colpo di martello entrò di netto nel legno e lui sorrise, ma riconobbi nei suoi occhi un fugace lampo di sofferenza. Ora mi domando: già sapeva o intuiva di quei chiodi che ieri lo hanno dilaniato? Nemmeno io potevo penetrare quei suoi pensieri oltre ogni umano pensabile. Molte cose le intuivo, ma come ogni donna che conosce a fondo il proprio figlio. Lui aveva la capacità di sorprenderti sempre, come quella volta allo sposalizio di Cana in Galilea, gli feci notare che il vino stava per finire e il maestro di tavola era agitato, perché gli sposi rischiavano una brutta figura. Lui mi fissò con i suoi occhi pieni di misericordia e anche un po’ divertiti e mi rispose: “Che c’è tra me e te o Donna? Non è ancora giunta la mia ora!”. Non vi dico la mia sorpresa, mai mi aveva chiamata donna in quel modo e dirmi poi che cosa c’era tra me e lui! Compresi che lì qualcosa di grande stava avvenendo e che ero chiamata a fare la mia parte, non potevo delegare tutto a Lui; mi chiedeva la mia collaborazione. Mi girai e dissi ai servi: “Fate quello che vi dirà”. I servi erano un po’ intimoriti da mio Figlio. Era la prima volta che lo incontravano, mentre io lì ero di casa essendo la madre della sposa una mia cara amica d’infanzia. I servi comunque fecero come disse mio Figlio senza fiatare, abituati a obbedire a qualsiasi comando. Ci volle il suo tempo a riempire sei giare vuote di quella capienza, fecero non so quanti viaggi tra il pozzo e le giare, forse domandandosi a cosa servisse. Il loro servizio fu ripagato oltre misura, quando Gesù ordinò di attingere un po’ di quell’acqua e di farla assaggiare al maestro di tavola, videro la limpidezza dell’acqua trasformarsi in un rosso cupo come un rubino. Si guardarono tra loro sbalorditi. Attesero con ansia di vedere la reazione del maestro di tavola e quando questi elogiò il magnifico vino, la loro gioia fu piena. Avevano collaborato a un grandissimo miracolo. Assaggiarono anche loro quel vino e credo non ne abbiano mai dimenticato il sapore.
Ieri. Ieri il rosso era il sangue di mio Figlio. Quanto sangue ha versato ieri mio Figlio. Non penso sia rimasta una goccia dentro di Lui di quel prezioso sangue. Quando la lancia squarciò il nostro petto, dal Suo sgorgarono sangue e acqua, dal mio un acuto dolore che mi portò quasi allo svenimento, se non ci fossero stati accanto a me Giovanni e Maria a sorreggermi sarei caduta come Lui nel salire il Golgota. Il centurione mi permise di tenerlo tra le braccia, dopo che fu calato dalla croce. Il mio grembo conteneva ancora mio Figlio. Non avrei voluto che finisse mai quel momento. Volevo rimanere così fino al momento che quelle membra si sarebbero mosse di nuovo. Avevo sotto gli occhi le lacerazioni delle ferite subite, quanti colpi! E tutto questo per uno scopo: l’Amore! Erano segni cupi che risaltavano ulteriormente a causa del pallore che aveva ormai il corpo senza vita. Le membra erano ancora un po’ mobili, non era ancora avvenuta la rigidezza cadaverica, e così il Suo corpo si adattò al mio, si lasciò plasmare sulla forma del mio grembo. Non ne sentivo il peso, ne sentivo solo la forma e il contatto vivo. Quelle membra che come Sua madre avevo toccato, lavato, accarezzato, visceralmente amato tante e tante volte, erano lì con me, per me. No, non volevo che mi distaccassero da quelle membra. Giovanni ad un certo punto si fece avanti e con dolcezza mi disse che Giuseppe d’Arimatea, un uomo giusto, aveva chiesto a Pilato di poter seppellire il Maestro nella sua tomba situata nelle vicinanze. Mi risvegliai come da un torpore al nome di Giuseppe. Pensai come il mio amato sposo Giuseppe aveva offerto la prima casa per custodire e proteggere mio Figlio e ora un altro Giuseppe offriva l’ultima dimora, l’ultima casa terrena. Chiesi ancora un attimo di solitudine con mio Figlio. Lo guardai così, per l’ultima volta e ripetei il mio sì. Sì, fiat Gli dissi, sono la serva del mio Signore, sia fatta la Sua volontà.
Presero il corpo di mio Figlio e sentii che si staccava il contatto fisico con il mio corpo. Il mio era ora un dono. Un dono come quando lo offersi la prima volta ai pastori che vennero ad ammirarlo e adorarlo appena nato, perché un angelo era apparso loro. Come non crederlo? Giuseppe e io sapevamo che era tutto possibile a Dio.
C’è anche Nicodemo un pezzo grosso del sinedrio, ha con sé un grande vaso. Mi guarda con profonda sofferenza. Mi dice: “Mi dispiace, ho fatto di tutto…”. “Lo so” gli rispondo e non lo lascio continuare. Ha il cuore a pezzi. Lo ringrazio e lascio che con Giuseppe e Giovanni portino via il mio Gesù. Gesù, Gesù è il suo nome.
Attendo il Risorto, so che verrà e non tarderà. Sono Sua Madre.