Chiesa in uscita: sì, ma la clausura? Il perché di una scelta – I parte

Pubblicato giorno 12 Febbraio 2019 - ARTICOLI DEL BLOG, Vita consacrata e monastica

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Pubblichiamo questo articolo di sr Irene Canepa OCSO (trappiste Vitorchiano) apparso su Vita Consacrata n. 4 del 2018, per gentile concessione della stessa casa editrice Ancora e delle Trappiste, che ringraziamo.

 

L’espressione “Chiesa in uscita” è nota da quando Papa Francesco l’ha utilizzata nel Esortazione apostolica e Evangelii gaudium, dove a proposito della trasformazione missionaria della Chiesa afferma: “La Chiesa in uscita è la comunità dei discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. La comunità evangelica attrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa e per questo essa sa andare incontro, cercare i lontani” (EG 1,24). Ciò che il Santo Padre auspica è una apertura cordiale e audace dei cristiani alla missione, alla testimonianza e all’annuncio del Vangelo al mondo intero. Naturalmente, non ha inteso esprimere un’idea nuova: la missione è inscritta nella stessa nostra identità cristiana. Essere figli nel Figlio generato e inviato dal Padre, è essere in Lui generati e inviati. La Chiesa è missionaria, “in uscita” per sua natura. Per noi monache di clausura cosa significa questo? Che tipo di missione vive chi fisicamente non esce quasi mai dal proprio monastero? Che tipo di incontro, che prossimità agli altri?

La questione si può affrontare da diverse angolature; proponiamo una riflessione, certamente limitata e bisognosa di approfondimenti.

Dal punto di vista materiale, noi monache (nota nostra: l’articolo è stato scritto dalle trappiste di Vitorchiano) trascorriamo la vita interamente tra le mura del monastero; uno dei voti che professiamo è quello della stabilitas loci. Come prevede la Regola di San Benedetto, l’ambito del monastero comprende gli spazi della vita regolare (chiesa, chiostro, scriptorum, refettorio, dormitorio) e i luoghi di lavoro (cucina, laboratori, orto), come anche un’infermeria e un cimitero. Le uscite e i contatti con l’esterno sono ordinati a necessità pratiche e comunque sottoposti al discernimento della madre badessa. Nella nostra comunità, per scelta concorde, anche l’uso di Internet è limitato a necessità di lavoro o a chi debba svolgere particolari servizi. Le persone che visitano il monastero sono accolte nella foresteria “come Cristo stesso”, secondo la Regola, e possono partecipare all’Ufficio divino in una cappella adiacente la nostra; c’è la possibilità di incontrare le sorelle nei parlatori ma con una frequenza regolata e discreta. Inoltre, persone povere bisognose costantemente bussano alla porta del monastero e ricevono qualche aiuto concreto (per lo più cibo e vestiario), altre telefonano per chiedere il sostegno della nostra preghiera in un momento di prova o di gioia.

La separazione dal mondo dunque segna profondamente l’identità e l’impostazione pratica della nostra vita monastica; i contatti con il mondo esterno non sono ricercati, piuttosto accolti.

Evidentemente, nel sentire comune, all’espressione “Chiesa in uscita” o Chiesa missionaria non si associa subito la figura di una monaca di clausura. La sapienza della Chiesa ha indicato proprio una claustrale, Santa Teresa Lisieux, come patrona delle missioni, e ciò potrebbe avviare una comprensione più profonda del senso della vita contemplativa. Tuttavia la maggioranza delle persone o non conosce questo dato o ne sottovaluta il significato.

La vocazione claustrale

Più in generale, rispetto alla stessa vocazione claustrale si avverte una certa perplessità, anche tra le persone di fede: che senso ha chiudersi lì dentro quando c’è tanto bene da fare fuori nel mondo? Che utilità? Cosa ci state a fare? Quante volte ascoltiamo questa osservazione, quante volte l’ingresso di una giovane in monastero è accompagnato dal sospiro rassegnato: “Aveva tanti doni, poteva fare molto e invece si è chiusa là dentro!”.

In realtà nel mondo c’è più gente “chiusa” di quanto non sembri: quanti invisibili muri separano le persone -orgoglio, pregiudizi paure…-. Chi pur non vive fisicamente entro i confini di una cinta, può restare altrettanto chiuso “nei recinti propri”, come sottolinea San Benedetto, e vivere realmente isolato.

In ogni caso, clausura e Chiesa in uscita sembrano non andare insieme: clausura non è vicinanza ma separazione, è stare-fuori e non entrare-dentro, è stare fermi e non andare-verso.

Alla domanda si deve una risposta: quale missione a chi vive in clausura, quale compito?

Una delle spiegazioni più diffuse e accettate è che si vada in monastero per pregare per il mondo e ottenere grazie per gli altri, come anche per dare consigli spirituali a chi si incontri in parlatorio: queste sono valutate come opere buone e tutto sommato utili. Tuttavia non è affatto questa la nostra identità, la nostra missione essenziale, né “lo spessore profetico della vocazione monastica” (Cristiana Piccardo, Alla scuola della libertà, Milano 1992, pagina 72).

Se la vita di clausura sembra un tirarsi indietro rispetto alle necessità del mondo, a ciò che potrebbe essere utile, forse il problema è che cosa si intenda per missione e anche utilità. Cosa è utile, perciò di cosa c’è bisogno davvero nel mondo?

Che il nostro mondo così com’è oggi abbia bisogno di essere cambiato, per quanto sembri una frase fatta, è una evidenza, è una esigenza che ogni uomo un po’ realista avverte. La realtà delle grandi ingiustizie che pochi potenti perpetrano a danno di interi popoli, la violenza fisica e ideologica che colpisce soprattutto i più indifesi e inermi e che si fa legge -aborto, eutanasia-, il dolore di tante vite sfruttate disperate -profughi-, la negazione delle libertà fondamentali -educazione, religione, obiezione di coscienza- spesso in nome di un pensiero relativista e nichilista, fino alle realtà più quotidiane di non senso e di impotenza che ognuno di noi sperimenta, fino alla realtà della propria personale fragilità e miseria. Il mondo tante volte ci appare un assurdo e più precisamente l’uomo a rivelarsi un abisso -come lo definisce la Scrittura-, una imprevedibile possibilità di bene e di male. Chi non desidera un cambiamento del mondo, dell’uomo e di sé?

Davanti all’attuale panorama, forse la grande tentazione per i cristiani è quella della delusione per l’inefficacia del cristianesimo, per la sua incapacità di cambiare le cose. “Il regno di Dio è vicino”: ma dove? Dove è la pace attesa, la giustizia promessa: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello…”? “Amate i vostri nemici”. Sì, è semplice ed essenziale ma non è poi troppo esigente? L’uomo che fa il male -e quanto!-lo merita?

Senza penalizzare le affermazioni della Scrittura estrapolandole dal contesto, vorremmo riflettere su una realtà fondamentale: nel cammino della fede cristiana, nella vita di chi segue il Signore Gesù dentro la sua Chiesa, l’esperienza della discrepanza tra attese compimento esiste. E questa discrepanza, questo “ritardo”, questo non-ancora, onestamente ci fa soffrire e spesso genera in noi una delusione e il senso di un’assenza. È accaduto ai primi, che immaginavano un Messia eroico che prendesse in mano le cose, le cambiasse -“Noi speravamo che fosse lui…”- accade anche noi oggi.

Di fronte a una promessa che sembra inadempiuta si assumono posizioni diverse: la reazione dei più volenterosi è supplire attivamente alla lacuna: “Diamoci da fare noi, cambiamo noi le cose”.

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