“Mi sto inventando una missione?” La vita consacrata come profezia (3)

Pubblicato giorno 23 Dicembre 2018 - ARTICOLI DEL BLOG, S. Chiara d'Assisi

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Essere profeti per la storia di oggi

 

Ogni epoca storica ha il proprio linguaggio: nel nostro tempo si parla volentieri di profezia. Viene condensata in questo termine una serie di significati che ruotano tutti intorno al concetto della significanza per l’oggi, della comprensiblità, dell’efficacia della testimonianza di valori eterni, della capacità di risposta alle istanze contemporanee, e da ultimo del dialogo. Un tempo, forse, la grande significanza era quella della santità personale, oggi non basta più solo questa dimensione personale: si cerca una significanza comunitaria, una santità comunitaria. La coordinata fondamentale che permette di fare questo passaggio è data dalla spiritualità di comunione[1] che vuole permeare ogni altro valore

È alla luce della spiritualità di comunione che noi, sorelle povere, siamo chiamate a viver oggi i grandi filoni profetici vissuti da Francesco e Chiara, imparando a riconoscere le domande e le inquietudini che agitano gli uomini e la storia, e che ci sollecitano a una testimonianza del Vangelo. Senza l’esercizio di un sapiente discernimento è difficile cogliere, dietro le povertà del nostro oggi, le domande di senso e i tentativi di salvezza che l’uomo naturalmente cerca.

Il dato più evidente messo in luce dal discernimento mostra che nel giro di pochi anni una profonda trasformazione culturale ha spinto le persone verso dinamiche sempre più individualiste. Ma dietro questa istanza negativa ve n’è una positiva: infatti l’individualismo si è prodotto come legittima difesa nei confronti di un ingovernabile, disordinato pluralismo che genera ansia e rischia di travolgere tutto e tutti in una piatta omologazione mediatica e consumistica.

Alla luce di questa pur confusa richiesta di trovare una direzione, un punto di riferimento stabile, possiamo intuire che il cuore dell’uomo è oggi più che mai assetato di figliolanza, di amore: ciascuno vive nel desiderio di essere riconosciuto. La tensione verso una vita penitente ha senso ancora oggi perché siamo discepole del vangelo della misericordia. Per  testimoniare il valore che ogni creatura umana ha in se stessa agli occhi di Dio ci è chiesto di rinunciare sempre alla seduzione del fariseismo, alla pretesa di quella perfezione che misura la propria grandezza sulla pelle delle povertà altrui. In questo modo la vita di conversione, di misericordia può diventare la più limpida espressione di discepolato, confessione umile del volto del Signore, della nostra dipendenza da Lui. La conversione personale e comunitaria vissuta attraverso gli strumenti della vita di fede e della vita fraterna – direzione spirituale, sacramenti, vita liturgica, Lectio, Capitoli comuni, Revisioni di vita, Ricreazione, Lavoro comune… – diventa un lasciarsi attrarre dalla bellezza del vangelo. Accettare di divenire “un laboratorio della nostra liberazione[2], della liberazione della Chiesa e dell’umanità perché si operi la vittoria della fede in Colui che ci ha rese sorelle, perché si operi la vittoria della non appariscenza contro il culto della visibilità, della fedeltà di ogni giorno contro la falsa libertà di fare ciò che si vuole, del coraggio di mettersi in discussione interrogando i valori ed il Vangelo contro la tentazione di adattare i valori al proprio tornaconto, anche spirituale. La “vita di penitenza”, la chiamata a “fare misericordia” testimonia l’anelito insopprimibile del cuore umano verso valori immutabili.

Imparare a perdere tempo nella cura delle relazioni per giungere all’unità fraterna che integra le diversità rifuggendo la tentazione dell’omologazione, è per noi una priorità irrinunciabile: siamo convinte che senza unità fraterna nessuna testimonianza evangelica ed ecclesiale è credibile.

Nel  contesto attuale di sofferenza della relazione, la vita fraterna in comunità può essere una testimonianza evangelica ancora più forte del pur prezioso e irrinunciabile apostolato. Nel cristianesimo odierno non manca certo il fervore della carità verso il prossimo, ma occorre fare oggetto di altrettanta passione anche l’altra qualità dell’amore agapico: la fraternità tipicamente cristiana. L’amore fraterno non è la stessa cosa della dedizione a perdere, perché esige la reciprocità tra dono e accoglienza. Questa reciprocità mostra che la presenza del Signore non solo ottiene il radicale incremento del dono della vita in favore del prossimo, ma ottiene anche la maturazione del legame d’affetto nel quale quel dono viene generato e custodito. La fraternità, resa possibile tra i credenti in forza di una sincera condivisione della fede, rende fruibile una rete di legami profondi che possono nascere solo da una trasformazione della vita capace di affinare le qualità più alte della relazione umana. Per questo dico che dovremmo sentirci sempre più impegnati a cogliere e testimoniare la presenza del regno, nel piccolo grande miracolo della nostra convivenza fraterna. Una presenza – forse – mai tanto desiderata come oggi, epoca in cui si è oscurata la speranza di un riscatto della condizione umana. Chiudo con una domanda: quale reale utilità può venirne per il mondo se noi non ci applichiamo “di nuovo e con entusiasmo alla vitalità di una rete affettuosa e capillare dei legami tra i credenti, destinata a ravvivare la sfiducia odierna nei legami duraturi e fedeli dell’umano che sono veramente destinati alla vita eterna?”.[3]

La vita fraterna invita a tessere e ritessere i rapporti credendo nel perdono come cuore della verità e dell’amore, e diventa una sfida positiva per la capacità di affidamento svelando la fragilità di una cultura della diffidenza e dell’individualismo. È un lasciarsi raggiungere dalla continua novità del vangelo, reso vivo e attuale attraverso le provocazioni e le esigenze della carità.

E poi, infine, l’altissima povertà oggi. Più sopra dicevo che essa è anzitutto rivelativa di una verità ontologica sull’uomo: che veniamo dal cuore e dalle mani di un Padre che ha dato per amore nostro il suo Figlio. In un tempo come quello odierno segnato da grandi ingiustizie e disuguaglianze l’espropriazione e la restituzione sono chiamate a testimoniare in modo forte la paternità di Dio e la fraternità fra gli uomini. Oggi più che mai siamo chiamate a vivere il nostro bisogno di Dio, il nostro bisogno del suo Amore “per diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi” (p 238). Si impara l’amore, la solidarietà, la condivisione attingendo continuamente alle sorgenti dell’Amore. La relazione profonda con Lui, nella preghiera personale e comunitaria, è il luogo dove imparare l’espropriazione interiore ed esteriore, la restituzione di sé e dei beni che Lui ci dona.

Per la nostra esperienza la vita contemplativa la vita in clausura è un aiuto alla relazione con Dio: l’ambiente e le strutture diventano quasi un memoriale della Sua Presenza, della Sua Signoria, memoriale che caratterizza tutti gli elementi fondamentali del nostro carisma.

Un ultimo misterioso aspetto della profezia è necessario mettere in luce, sempre attingendo dal testo di Benedetto XVI: ed è quello del fallimento della missione. Il papa scrive di Gesù:

Il suo messaggio contraddice troppo l’opinione comune, le abitudini correnti. Solo attraverso il fallimento la sua parola diventa efficace. Questo fallimento del profeta incombe come oscura domanda sull’intera storia di Israele e si ripete in certo qual modo di continuo nella storia dell’umanità è soprattutto sempre di nuovo anche il destino di Gesù Cristo: Egli finisce sulla croce. Ma proprio dalla croce deriva la grande fecondità.” (p. 226).

È un messaggio forte: la fecondità della profezia non dipende da noi, dipende dall’amore del Figlio che ci ha amato “sino alla fine” (Gv 13,1)  e che ha amato il Padre facendosi “obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Ciò che ci è chiesto è di rimanere in Lui che ci ha associati alla sua morte e risurrezione. La grande missione profetica della Chiesa, di ogni battezzato, di ogni consacrato è l’Amore…


[1]    “Un grande compito è affidato alla vita consacrata anche alla luce della dottrina sulla Chiesa-comunione, con tanto vigore proposta dal Concilio Vaticano II. Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come «testimoni e artefici di quel “progetto di comunione” che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio». Il senso della comunione ecclesiale, sviluppandosi in spiritualità di comunione, promuove un modo di pensare, parlare ed agire che fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa. La vita di comunione, infatti, «diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo […]. In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione», anzi «la comunione genera comunione e si configura essenzialmente come comunione missionaria»”. (Giovanni Paolo II, VC 46)

[2]   “Dobbiamo essere sinceri e sobri: la vita evangelica non può essere in questo mondo un permanente fortissimo dell’amore. Le interrogazioni che precedono la Professione parlano di solitudine e silenzio, di preghiera assidua, di generosa penitenza, di buone opere e dell’umile fatica quotidiana. La vita evangelica in questo mondo sta sempre sotto il segno del mistero pasquale, è passaggio dall’egoismo all’amore, è un tendere “alla carità”, come dicono le domande; e perciò anche tentazione ed esperienza del nostro proprio vuoto. Tutte le tentazioni della Chiesa entrano nella vita monastica, devono entrare e possono essere superate nella Chiesa solo se vengono in modo esemplare sofferte e superate nella pazienza e nell’umiltà delle anime elette, la cui vita diventa un laboratorio della nostra liberazione.” (Card. Joseph Ratzinger, Omelia in occasione di una professione solenne celebrata ad Assisi Protomonastero santa Chiara, 21 maggio 1989)

[3]    (Da una Lectio, citazione di Sequeri P.A.; “L’apprendista al timone”)

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