Parlare di palme ci fa pensare subito alla Domenica delle Palme, che porta, appunto, il loro nome (anche se oggi è spesso soppiantata dall’ulivo!) e al Vangelo che narra l’ingresso solenne di Gesù a Gerusalemme raccontato concordemente da tutti e quattro gli evangelisti (Mt 21, 1-11; Mc 11, 1-11; Lc 19, 28-38; Gv 12, 12-16); solo Gv 12, 13 ci parla esplicitamente di “rami di palme”. Una modalità di festa già presente nell’Antico Testamento (cfr 1Mac 13, 51 e 2Mac 10, 7).
La pianta reale e le sue rappresentazioni, come decorazione nell’antico tempio (cfr 2Re 6, 29-35; 7, 36; 2Cro 3, 5; pure in Ger 40, 16.26.37 e 41, 17-26) ma anche nelle nostre chiese, ci parlano sempre di una pianta sempre verde; di oasi nel deserto; di altezza verso il cielo; di frutti dolcissimi da gustare (da cui si ricavava una farina e anche una specie di miele e un liquore); di ombra che offre conforto e riparo (Es 15, 27; Nm 33, 9). Il fatto di essere una pianta tipica, probabilmente proprio originale della Palestina, ci dice già molto: la terra del popolo eletto, dei Patriarchi e di Gesù!
Gerico (così come altre località) era detta la città delle palme (Dt 34, 3 e 2Cro 28, 15) ed è simbolo della Chiesa innalzata tra i popoli (Ct 7, 8- 9; Os 9, 13), che porta frutti di bene. Sotto la palma è il luogo in cui Debora amministrava la giustizia (Gdc 4, 4-5). Un albero sempre verde e centenario per cui ci si augura di vivere a lungo come una palma. Ma soprattutto simbolo dell’uomo retto e giusto come preghiamo nei Salmi (92, 13): “Il giusto fiorirà come palma”. I Padri parlano di Maria come palma che porta al mondo il frutto più prezioso, che è Cristo.
Il riferimento per noi, nel chiostro, è quello escatologico di avere le palme tra le mani per accogliere, salutare e riconoscere l’Agnello immolato (Ap 7, 9):
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello»”.
La palma è il simbolo scelto per indicare i martiri, che come il ramo di palma non cede al carico né alla pressione del vento e dell’uragano, così resistono alla persecuzione senza venire meno alla loro fede e alla fedeltà a Dio e alla Chiesa.
La palma è legata anche alla festa delle capanne che venivano fatte soprattutto con questi rami (Lv 23, 40 e anche in Ne 8, 13-18), in memora degli anni dell’esodo, del cammino nel deserto.
Viene presentata anche come simbolo della Sapienza di Dio (Sir 24, 9- 15): “Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno. Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità. Sono cresciuta come un cedro sul Libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon. Sono cresciuta come una palma in Engàddi e come le piante di rose in Gerico, come un ulivo maestoso nella pianura e come un platano mi sono elevata. Come cinnamòmo e balsamo di aromi, come mirra scelta ho sparso profumo, come gàlbano, ònice e storace, come nuvola d’incenso nella tenda”.
La palma appare anche, con l’ulivo, come segno di pace (per es in 1Mac 13, 36-40 e 2Mac 14, 4) da portare nel mondo con Cristo, il Messia. “Chi è costui?” si interroga la gente il giorno dell’ingresso festoso nella città santa per la Pasqua. “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea” (Mt 21, 10). Chi è costui: osannato e acclamato, percosso e umiliato, crocifisso e sepolto? È il profeta Gesù che sa dire una parola allo sfiduciato perché lui per primo si è fatto discepolo del Signore Dio. “Sei tu il Cristo (il Messia), il Figlio di Dio?” gli chiede il sommo sacerdote. La risposta di Gesù è chiara: “Tu lo hai detto!”. Lo hai riconosciuto anche tu! E il Centurione sotto la croce dichiara: “Davvero costui era Figlio di Dio!” Chi è costui a cui anche io mi affido, in cui credo? Egli è colui che sull’albero della croce ha portato il peso dei miei, dei nostri peccati e per questo Dio lo ha esaltato e lo ha reso Signore (Fil 2, 5-11).
Mettiamoci anche noi sotto quell’albero della croce e guardiamo a Gesù non con la superbia dei capi dei sacerdoti, neppure con la sfacciataggine della gente che passa e lo schernisce, ma con la semplicità del centurione che adempie il suo lavoro e soprattutto con il cuore fedele e coraggioso di Maria, di Giovanni e delle donne. Nella vicenda pasquale Gesù appare sempre più come un profeta, come il profeta che ci parla in nome di Dio che ci parla davanti a Dio. Egli si presenta a noi con la sua certezza: “Berrò il vino nuovo con voi nel Regno del Padre mio”; con la sua disponibilità e obbedienza al Padre: “Padre, se è possibile passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu”; con la sua fiducia: “Il Padre metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di Angeli”.
L’evangelista Matteo ripete con insistenza che quanto avviene era già scritto e che in Cristo si compiono le Scritture. Gesù è il profeta che non si limita a parlare ma realizza in se stesso, nella sua vita e nella sua morte, nella sua Pasqua, la Parola di Dio. Quella legge e quei profeti, che hanno accompagnato la sua vicenda terrena, lui ora li adempie fino in fondo, li realizza in pienezza. Gesù è il più grande profeta perché in lui le Scritture, la Parola diventano persona, diventano presenza, diventano dono e salvezza per tutti. È la vicenda del chicco di grano che, caduto nella terra, non rimane solo, ma muore e produce molto frutto (cfr Gv 12, 24).
Tutto il cammino della vita di Gesù va verso quella meta. Ma il Calvario, il Golgota, è solo una tappa. Accanto al luogo della Croce, a pochi passi, lì vicino in quel giardino, c’è anche il sepolcro! Il luogo della sepoltura, ma soprattutto della risurrezione dai morti. Anche quella tomba in quel giardino è solo un luogo di passaggio ed è ormai vuota, inutilizzabile per sempre.
Se anche noi, come le donne, cerchiamo il Signore lo troviamo dove viviamo ogni giorno, sulle strade e nelle case della vita quotidiana. Egli viene incontro a noi “nel nome del Signore”. Nelle nostre chiese, nelle nostre case, nei nostri luoghi di lavoro e di vita spesso lo incontriamo nei “crocifissi”. Essi sono anzi tutto le tante persone che soffrono, che portano croci pesanti. Ma ci sono anche quelle croci, i crocifissi in cui Cristo stesso è innalzato. Cosa pensiamo, cosa diciamo, cosa facciamo quando li guardiamo, quando li vediamo? Forse oramai siamo indifferenti! Siamo talmente abituati a vederli, che a volte sono solo un soprammobile, un segno vuoto, insignificante. Molti pretendono che la croce sia presente negli ambienti pubblici e poi dimenticano di averli nelle proprie case. Istruiti dalla Domenica delle Palme e della Passione del Signore, dalla celebrazione del Venerdì Santo, dovremo imparare a fare nostre, davanti ad ogni croce, le parole del centurione sotto quella Croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”. Quanto ci tiene l’evangelista Marco a riportare questa affermazione di un pagano, di un non ebreo. Il Vangelo di Marco si era aperto proprio con questo titolo: “Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”. A metà del Vangelo, nel contesto dell’annuncio della passione, morte e risurrezione, da parte di Gesù, è l’apostolo Pietro ad affermare: “Tu sei il Cristo!”. Ora la dichiarazione diventa vera, si compie. Come canta l’inno della Lettera di San Paolo ai Filippesi: il Figlio di Dio, Dio lui stesso si è abbassato, si è umiliato fino alla morte di croce e per questo ora lui è la rivelazione e la pienezza della vera gloria di Dio.
Le splendide e sempre avvincenti pagine che narrano la Passione di Gesù ci dicono che egli è veramente il Figlio di Dio. Quanti testimoni di questa verità! Pietro, Giacomo e Giovanni proprio nell’orto degli ulivi lo vedono soffrire nell’agonia. Pilato nel pretorio lo riconosce come re. Giovanni e il centurione sotto la Croce, ne contemplano la straordinaria morte; le donne sul Calvario e davanti al sepolcro osservano con il cuore sconvolto. Gesù si riconosce pubblicamente Figlio di Dio, “Figlio del Benedetto”, sapendo che con questa dichiarazione firma la sua condanna a morte: “Io lo sono!”. Egli ci salva con il dono della sua Parola, del suo Corpo e del suo Sangue, per rimanere con noi, unito a noi, sulla terra. “Il Signore Dio mi assiste … so di non restare confuso” (Is 50, 7): diciamolo con coraggio a quanti, anche oggi, davanti alla Croce e al Crocifisso scuotono il capo. Noi lo sappiamo che “La redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo” (Redemptoris missio, 2).
Nel Messale c’è una bella preghiera che il sacerdote nella Messa dice sottovoce prima di ricevere la Comunione: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo, morendo hai dato la vita al mondo, per il santo mistero del tuo corpo del tuo sangue liberami da ogni colpa e d’ogni male, fa’ che sia sempre fedele alla tua legge e non sia mai separato da te”. Il Signore non permetta che ci separiamo mai da lui; che possiamo vivere in pienezza l’esperienza della comunione tra noi e con lui: il vero Albero della Vita.
Stando sotto una palma, alla sua ombra, domandiamoci ancora in questo momento di oasi: Chi ci guarda, cosa vede? Quali oasi cerchiamo nel deserto delle vicende quotidiane personali e comunitarie? Stiamo con Cristo solo nella gioia o anche nel momento della fatica, della stanchezza e della delusione? Nel momento delle “bufere” ci aggrappiamo al Signore o contiamo solo sulle nostre forze? Ci lasciamo piegare dal male, ma senza soccombere, impedendo al diavolo di sradicarci da Cristo? Costruisco con il Signore la storia della mia vita? Che cosa è per me veramente e quotidianamente (pensiamo a San Francesco) l’albero della Croce di nostro Signore?