Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici – 21° anniversario del martirio dei monaci trappisti di Tibhirine

Pubblicato giorno 21 Maggio 2017 - ARTICOLI DEL BLOG, Vita consacrata e monastica

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Il 21 maggio di 21 anni fa si consumava il martirio dei monaci trappisti di Tibhirine in Algeria.

Nei giorni immediatamente successivi al martirio dei sette monaci, il ritrovamento del Testamento di fr. Christian De Chergé, abate del monastero di Notre Dame de l’Atlas aveva contribuito a svelare il senso cristiano ed escatologico della presenza di un monastero cristiano “di oranti” in una terra musulmana, abitata “da altri oranti” e aveva gettato luce sul mistero del dolore e della violenza che drammaticamente colpisce il mondo, talora secondo un progetto diabolicamente voluto e talora “alla cieca”.

Fr. Christian e i suoi fratelli ci appaiono quasi “martiri per caso”, eppure lucidamente consapevoli che “per superare il male è necessario assumerlo e perdonarlo” anche quando l’esito di questo assumere e perdonare chiede il dono della vita. Ma il testamento di fr. Christian rivela, in maniera forte e tenera insieme, che solo l’amore per Cristo, autore della redenzione di tutti, l’amore per la Chiesa, per i fratelli concretissimi che ci vivono accanto, dà senso al vivere e al morire. Il senso della vita è  un un gesto: la restituzione amorosa di ciò che si è ricevuto: tutto.

I testi che da oggi, 21 maggio, vi proponiamo a cadenza mensile, sono frutto di una riflessione su martirio e formazione al dono di sé nata come un elaborato di antropologia biblica nel contesto di un corso di formazione della nostra federazione.

Nessuno ha un amore più grande di questo:

dare la vita per i propri amici (Gv 15,13)

 

Riflessione su martirio e formazione al dono di sé

 

  1. DARE LA VITA PER GLI AMICI:

    LA FORZA ATTRATTIVA DELL’AMORE PIÙ GRANDE

 

Nessuna testimonianza di vita ha costituito e costituisce un punto interrogativo tanto forte quanto quella di uomini e donne che al tornaconto personale hanno anteposto la coerenza con i valori etici e religiosi[1]: essa tocca indubbiamente il suo vertice nella testimonianza dei martiri che giungono persino al sacrificio, al dono della vita, nel superamento totale dei propri interessi. Nel martire risplende con assoluta trasparenza la tendenza alla trascendenza esistente in ogni uomo, che va oltre l’aspetto intrapersonale del proprio perfezionamento, come pure oltre l’aspetto interpersonale dell’attenzione all’altro. Di che genere è, dunque, questa trascendenza? “E’ una trascendenza che è superamento della propria soggettività e della realtà immediata, e pure attinge il significato vero dell’una e dell’altra. La potremmo chiamare trascendenza metapersonale, o verticale, o ultramondana, o totale”[2]. Essa apre ad una relazione di totale alterità che rimanda al rapporto dell’uomo con i valori e con i valori rivelati, e quindi con Dio in Gesù Cristo.

E’ contemporaneamente relazione di verità e di amore. L’uomo è sempre tentato, e lo è particolarmente nel nostro tempo caratterizzato dal ‘pensiero debole’ del post-moderno, di farsi artefice della propria verità e dei valori. Ma c’è una sola strada che apre alla verità: quella della conversione. “Convertirsi vuol dire: seguire Gesù, andare con Lui, sul suo cammino. Ma è Dio che ci converte. La conversione non è un’autorealizzazione dell’uomo, e l’uomo non è architetto della propria vita. La conversione consiste essenzialmente in questa decisione, che l’uomo cessa di essere il suo proprio creatore, cessa di cercare soltanto se stesso e la sua autorealizzazione, ma accetta la sua dipendenza dal vero Creatore, dall’amore creativo. Convertirsi vuol dire: accettare le sofferenze della verità. La conversione esige che non solo generalmente, ma giorno per giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede, l’amore diventino più importanti della nostra vita biologica, del benessere, del successo, del prestigio, della tranquillità della nostra vita … Accettando questa priorità della verità seguiamo il Signore, prendiamo la nostra croce e partecipiamo alla cultura dell’amore, che è la cultura della croce”[3].

Ma non è anacronistico parlare di martirio in un contesto culturale che sollecita l’uomo a salvare la vita piuttosto che a perderla? Qual’è lo specifico del martirio cristiano? Quale testimonianza su Dio e sull’uomo ci viene dai martiri? Il martire può davvero costituire un modello educativo?

Il secolo che ci stiamo lasciando alle spalle ha sovrabbondato di testimonianze estreme della vita rese da cristiani in situazioni di persecuzione: in un certo senso, allora, il martirio si impone da sé come evento che si innesta nella storia, e dunque nella cultura odierna, con la forza profetica della testimonianza assolutamente controcorrente, anche dal punto di vista antropologico. Ed è quanto cercheremo di approfondire a partire dalla Sacra Scrittura in questo elaborato.

Esso nasce dall’attrazione personale per alcune figure di martiri – in particolare i sette monaci trappisti uccisi in Algeria nel 1996, il cui fascino è duplice: quello della testimonianza personale e quello della testimonianza comunitaria, entrambe trasparenti della pedagogia divina che li ha saldamente ancorati a Cristo, alla Chiesa e a un popolo – e dallo stimolo-provocazione offerto da Giovanni Paolo II nell’omelia della Veglia della XV Giornata Mondiale della Gioventù. Il papa, dopo aver preso spunto dalla radicalità della testimonianza dei martiri, è passato ad illustrare le quotidiane situazioni di tensione dialettica tra bene reale e bene apparente che richiedono disposizioni simili[4]. Già nel recente testo post-sinodale “Vita Consecrata” il Papa aveva invitato a far sì che la memoria dei martiri sia non solo celebrata ma funga anche da incitamento all’imitazione (cfr. VC, n. 86; Conc. Vat. II, Lumen Gentium, n. 42). Indubbiamente egli intende un’imitazione delle disposizioni di totalità e radicalità, delle disposizioni cioè di auto-trascendenza teocentrica, cuore della vocazione dell’uomo. Ogni risposta alla vocazione, tanto più alla vocazione a perdere se stessi nel dono di sé a Dio, è preceduta da una chiamata, da una iniziativa divina, che dà ragione di ciò che domanda. Questa “ragione”, sulla quale si fonda il comandamento dell’amore, si è fatta carne in Gesù. “E’ la consapevolezza della presenza di Cristo nella propria vita e nelle proprie azioni che rende il martire capace di ciò che naturalmente sarebbe impensabile: il martire non rende testimonianza della propria capacità di amare o dell’umano desiderio di amare, ma dell’amore indicibile di Cristo che vince, prima, la debolezza di ogni singolo uomo e, alla fine, la stessa incapacità di amare dei carnefici”[5]. Il martirio è frutto dell’opera redentiva e della vittoria di Cristo sul male, anzitutto nel martire stesso e svela dunque la dignità grandissima dell’uomo il quale è capace di contenere Dio, come ricorda santa Chiara: “mentre, infatti, i cieli con tutte le altre cose create non possono contenere il Creatore, l’anima fedele invece, ed essa sola, è sua dimora e soggiorno, e ciò soltanto a motivo della carità, di cui gli empi sono privi”[6].

Gesù innesta sul suo stesso gesto di amore totale le esigenze della sequela alla quale invita coloro che si è riscattato. C’è, Egli dice, un solo modo per salvare la vita, ed è quello di perderla per lui e per il vangelo, nell’amore a Dio e nel servizio dei fratelli (Mc 8, 34-38 e //). Solo l’amore, in perdita, dice Gesù permette alla vita di trovare il suo vero senso. “Le testimonianze più commoventi e più persistenti che provengono dai lager sono testimonianze di letizia e di maturità umana. Il martirio non è subito e neppure supinamente accettato, ma è accolto come coronamento della vita, come traguardo che esalta l’umano oltre l’umano … Per noi che facciamo memoria dei martiri, la loro testimonianza non è soltanto un esempio da imitare, paradigma di perenne confronto, ma anche criterio di verità, per alimentare la speranza e giudicare la storia. Non possiamo ammettere che il sangue dei martiri, come il sangue di Cristo, sia stato sparso invano. Dalla Croce spes nostra unica, noi vediamo fluire incontaminato e fecondo il sangue di Cristo e dei martiri: la misericordia e il perdono di Dio che dominano su ogni male. Farne memoria è il contributo umile e prezioso perché il mistero diventi consapevolezza e la libertà dell’uomo si sposi con la volontà di Dio[7].

Ecco, dunque, perché parlare di martirio in un mondo che sollecita l’uomo a salvare la vita: perché nel martirio è racchiuso un criterio di verità dell’uomo; che egli, cioè, può comprendersi solo a partire dal mistero di Cristo Verbo Incarnato e può ritrovarsi pienamente solo attraverso un “sincero dono di sé” (Conc. Vat. II, Gaudium et spes, nn. 22, 24). Vi è nel martirio un appello e una vocazione che riguardano tutti: abbracciare con totalità le esigenze della sequela, del cammino di conformazione a Cristo, che è innanzitutto sovrabbondante dono di grazia perché “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4, 10b).

La lotta del martire è allora lotta cristiana per eccellenza: “un martire cristiano non è qualcosa di accidentale. Ancora meno, il martirio di un cristiano può essere il risultato della volontà di un uomo di diventare un martire, a forza di volontà e di sforzi, come un uomo, a forza di volontà e di sforzi, può diventare un capo. Un martire non è mai frutto del progetto di un uomo, perché il vero martire è colui che è diventato strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio, che non l’ha perduta ma ritrovata, poiché ha trovato la libertà nella sottomissione a Dio. Il martire non desidera nulla per sé stesso, nemmeno la gloria di subire il martirio”[8]. La lotta del martire è lotta per credere[9]: credere all’amore di Dio oltre ogni debolezza e peccato. E’ lotta che matura in un’esperienza di misericordia ricevuta e che si attua giorno per giorno. Se è un’esperienza di misericordia allora lo specifico del martirio cristiano non è la coerenza e l’adesione a dei valori che, per quanto alti, non siano gli ultimi: esso comporta l’adesione alla fonte stessa dei valori, a Dio[10]. Per giungere a questo occorre un cammino formativo e educativo che raggiunga la totalità della persona, poiché il patto d’amore che Dio stipula con l’uomo è senza riserve e non è limitato da alcunché. E’ la totalità del coinvolgimento divino nell’avventura umana a rendere possibile l’innamoramento dell’uomo per Dio. E proprio perché in Cristo la divina avventura è anche totalmente umana, sono ravvisabili nella nostra natura tappe ben specifiche di un cammino di maturità, che si gioca fra ciò che la persona è (il suo Io Attuale) e ciò che la persona vuole diventare (il suo Io Ideale). Si tratta di trovare il passo giusto perché l’immagine divina impressa in ciascuno diventi sempre più somigliante al suo Modello, nella libertà.

[1] Cfr. L. Kolhberg, citato in A. Cencini e A. Manenti, Psicologia e formazione, EDB, 2000, p. 95.

[2] Cfr. A. Cencini e A. Manenti, op. cit., p. 96.

[3] Cfr. J. Ratzinger, in Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, 1994, p. 124-126

[4] Giovanni Paolo II, Omelia per la Veglia della XV GMG, Osservatore Romano, 21-22-agosto 2000, p.5: “Penso ai fidanzati e alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza nell’attesa del matrimonio … Penso ai rapporti fra amici e alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra di loro … Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale di consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella dedizione a Dio e ai fratelli …”

[5] La Nuova Europa, Rivista internazionale di cultura, La casa di Matriona, n. 4, 2000, editoriale.

[6] 3LAg, Fonti Francescane, EMP, 1980, n. 2892.

[7] R. Scalfi, I testimoni dell’Agnello, Martiri per la fede in URSS, La casa di Matriona, 2000, introduzione

[8] B. Olivera (a cura di), Martiri in Algeria, Ancora, 1997, p. 109 (riflessione di Fr. Christophe Lebreton)

[9] Cfr. Giovanni Paolo II, omelia cit., p. 5

[10] L. M. Rulla, Antropologia della Vocazione Cristiana, EDB, 1997, p. 153

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