Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. In memoria dei martiri di Tibhirine– 2° parte

Pubblicato giorno 21 Giugno 2017 - ARTICOLI DEL BLOG, Vita consacrata e monastica

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  1. L’ESPERIENZA DI MARTIRIO NELL’ANTICO TESTAMENTO

 

L’esperienza del martirio testimoniata dall’Antico Testamento è ravvisabile nella sorte dei profeti e nelle vicende del popolo che ingiustamente soffre per la fede in Jahve (cfr. Is – in particolare i carmi del Servo -, Ger, Os, Gb, Sl 73, 77, 79, 80) si può comprendere solo alla luce di un’esperienza di fedeltà. Fedeltà è anzitutto fedeltà di Dio al singolo e al popolo, espressa col dono dell’Alleanza: da questa fedeltà dipende la dignità dell’uomo[1]. Di conseguenza la fedeltà di Dio diventa appello rivolto all’umanità: la legge è dono di vita per l’uomo ed esservi fedele è vita per l’uomo. La legge veicola una parola di verità sull’uomo e colloca la sua vita in relazione di obbedienza – intesa nella sua accezione più piena – con Dio.

Ho scelto come brano di riferimento 2Mac 7: in esso troviamo una ripresa del tema della creazione quale prima forma di alleanza, che consente un confronto e un rimando con i primi capitoli del libro della Genesi; la ripresa del tema antropologico è, però ‘gettata in avanti’ per l’emergere della fede nella risurrezione dei corpi, che troverà il suo compimento pieno nella morte e risurrezione di Gesù, Nuova e definitiva Alleanza.

2.1 FEDE IN DIO CREATORE

I due libri dei Maccabei, seppur in modo diverso (avendo carattere prevalentemente e marcatamente storico il I, e di edificazione il II), presentano la storia di Israele nel II sec. a.C., durante il dominio di Antioco Epifane, il quale tenta con la forza di imporre l’ellenismo. Questo tentativo incontra l’opposizione di alcuni che pagano a costo della vita la fedeltà al Dio dell’Alleanza. In 2Mac attraverso il genere letterario della “storia patetica”, tendente a suscitare nel lettore le emozioni più vive, compaiono figure significative di testimoni della fede[2].

Posti violentemente di fronte all’imposizione di rinnegare la fede mangiando carni proibite, sette fratelli e la loro madre scelgono di rimanere fedeli alla legge e di affrontare la morte. Questa situazione, umanamente senza sbocco, è sostenuta dalla memoria della duplice Alleanza: quella della Torah e quella della creazione.

Il mistero della vita umana, ricevuta da Dio, è detto con espressioni che rimandano a Gen 1-3 e all’insegnamento teologico e antropologico qui contenuto[3]. La verità sull’uomo, che Dio trae dal nulla e che quindi può potentemente salvare dalla morte, è espressa attraverso il valore dell’obbedienza alla legge ma, ancor prima attraverso l’obbedienza alle leggi inscritte da Dio nella natura umana[4].

La maternità fisica diventa maternità spirituale nel modo più alto perché sollecita al dono sincero di sé a Dio, senza che il timore degli uomini, le lusinghe dei beni materiali e nemmeno il timore della morte offuschino lo sguardo e seducano il cuore. Si ritrovano in questa figura di madre i tratti di Rachele la quale, per dare la vita al figlio Beniamino, accetta di morire. Anche qui l’angoscia della morte è superata con la rinuncia ad avere i figli per sé, in una dimensione di perdono e di offerta: la morte, assunta, si trasforma in dono di vita[5]. E’ in gioco, ancora una volta, la verità dell’uomo che trova il suo senso nel dono di sé, gratuito, che nulla attende in cambio, che attraversa anche la morte con la fiducia di chi spera la manifestazione di Dio “nel giorno della misericordia” (2Mac 7,29).

Il volto di Dio che emerge dalla trama drammatica della storia è quello del Dio che perdona e che perdonando dona la vita: solo a questa luce è comprensibile la portata della confessione degli ultimi due figli “E’ per i nostri peccati che noi soffriamo” (2Mac 7,18. 32-33. 37-38). Rispetto al racconto di Gen 3 qui, come pure in molte espressioni dei profeti e dei salmi, l’uomo appare capace di riconoscere la propria realtà di essere peccatore e di assumere su di sé le conseguenze del peccato, anche in espiazione per il resto del popolo. Perché se Dio è colui che crea dal nulla, allora può perdonare il peccato e ridare la vita ai morti. E’ però solo in Gesù che la verità del Dio misericordioso risplenderà, senza confronto, come vita dell’uomo, proprio attraverso la via della Croce, della debolezza e della fiducia in Dio, del peccato riconosciuto e del perdono ricevuto e donato.

2.2 LA VERITÀ’: VIA ALL’AMORE

Solo dimorando nella verità della propria dipendenza da Dio, della propria creaturalità, con atteggiamento di obbedienza, l’uomo poteva vivere nella comunione. Il dramma della storia ha avuto inizio col tradimento della verità, con la menzogna del peccato che ha prodotto una catena di fratture: frattura della comunione con Dio, con l’altro, col creato, frattura nel cuore dell’uomo stesso. E’ ancora Gen 3 a mostrarci la spirale della violenza, della menzogna che separa sempre più l’uomo dall’uomo, costringendolo a una difesa psicologica e fisica che riduce la vita a lotta per la sopravvivenza. La libertà originaria si trasforma in arbitrio e si allontana sempre più dalla verità e dall’amore, delimitando dentro orizzonti sempre più angusti la tensione dell’uomo ad uscire da sé.

La capacità di auto-trascendenza dell’uomo, chiamato alla relazione con Dio – ciò che costituisce la sua verità ontologica –, si contrae in auto-trascendenza egocentrica (uscire da sé per il proprio perfezionamento egocentrico) o al massimo in auto-trascendenza filantropica (uscire da sé per il benessere dell’umanità; cfr. le varie ideologie filosofico-politiche di Marx, Comte, Marcuse ecc.). Questo scollamento dalla verità non è senza conseguenze, è anzi un’autentica esperienza di morte: si acutizza la tensione dialettica fra le due grandi spinte motivazionali dell’uomo, tra l’ ‘importante per me’ da una parte, e l’ ‘importante in sé’ dall’altra. L’uomo, non più totalmente libero di determinarsi per il bene reale e per l’amore vero, opterà spesso per il bene apparente e per un amore povero. Pesa su di lui il fascino della seduzione che lo chiude nel volere emotivo e nella soggettività, limitando la sua capacità di volere il bene e decidersi per esso: è il peso della concupiscenza che, a livello psicologico, coincide con le dinamiche inconsistenti inconsce della II dimensione. E’ questo il nucleo centrale che sostiene la tensione delle due logiche evidenziate da Gesù quando illustra le esigenze della sequela, quasi fossero una domanda che l’uomo porta segretamente in sé, nella sua ricerca di felicità e di senso: salvare la vita o perderla?

[1] B. Maggioni, Uomo e società nella Bibbia, Jaka Book, 1991, p. 28

[2] P. M. Laconi, in Il Messaggio della Salvezza, Vol II, Parte II, Elle di Ci, 1966, p. 385-390, 407-408

[3] Cfr. B. Costacurta, Appunti degli studenti del PUG, 1994 p. 1-73; B. Maggioni, op. cit., p. 17 e ss

[4] Cfr. L. M. Rulla, op. cit., p. 141

[5] Cfr. B. Costacurta, op. cit. p. 154-160

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