“Sopra di noi c’è pur sempre il cielo”. Vivere da protagonisti l’imperativo “Férmati!” #iorestoacasa

Pubblicato giorno 28 Marzo 2020 - ARTICOLI DEL BLOG, Eventi

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Questo tragico tempo, che speriamo e preghiamo finisca presto col suo indicibile carico di sofferenza e di lutto, sta mettendo a nudo tutta la nostra fragilità. Fragilità davanti alla malattia e alla morte, alla possibilità per niente remota che il contagio possa prendere noi che ‘per ora’ (come vien da rispondere a chi ti chiede ‘come state?’) stiamo bene, i nostri cari o le nostre comunità. Fragilità davanti alla morte, dolorosamente ancora più solitaria, che spesso colpisce nelle nostre case coniugi e familiari, o i genitori che abbiamo affidato alle cure di una casa di riposo, consci che la loro assistenza va al di là delle nostre reali possibilità. Fragilità davanti alle conseguenze economiche dell’attività lavorativa sospesa fino a data da destinarsi, come se fossimo in guerra.

Lacera il cuore il pensiero che i nostri anziani, che stanno vivendo le loro pasque in solitudine, erano bambini durante la seconda guerra mondiale. Protagonisti di un doppio dramma, dolorosamente grande, all’inizio e alla fine della vita. Torna alla mente un’espressione di Ungaretti nella poesia ‘Mio fiume anche tu’ che condensa tutto il dolore del mondo in un’immagine fortissima: “E pietà in grido si contrae di pietra” (Mio fiume anche tu – Giuseppe Ungaretti).

Ci sentiamo rappresentati da questo grido fissato per sempre, scolpito per sempre nel cuore come nella pietra.

È un grido ruggente e silenzioso: “Miserere!”, lo stesso grido che Dante, nella Divina Commedia, alza nel momento in cui si scopre braccato e nudo davanti alle conseguenze delle sue scelte. “Miserere, abbi misericordia” è il grido che si alza silenziosamente cosciente dalla nostra fragilità. Quella che il Figlio di Dio ha assunto e fatta indissolubilmente propria. La preghiera che scaturisce in queste settimane ci mette sulle labbra le parole vere: “Dal profondo a te grido, Signore; Signore ascolta la mia voce…”. Sono parole povere che sposano fino in fondo il nostro senso di impotenza:  parole essenziali che sentiamo corrispondere fino in fondo a ciò che siamo e viviamo. Le diciamo perché sappiamo che queste parole sono impresse nella carne ferita e gloriosa del Figlio. Il Crocifisso sta lì, appeso alle pareti delle nostre case, che in questo tempo possono svelarsi per quel che sono: chiese domestiche, luoghi dove la fede può essere celebrata in piccoli gesti di dono, di attenzione, di premura, di intercessione per tutti e di riconciliazione. Sì, di riconciliazione: abbiamo sempre bisogno di perdono, dato e ricevuto, che rimetta al centro delle relazioni l’incontro e l’abbraccio, “come in cielo così in terra”. E che non dimentichi coloro che, meno fortunati di noi, si trovano a vivere, oltre a questo, anche il dramma della guerra e della fame.

Non è scontato che l’imperativo ‘Férmati!’ ci trovi effettivamente capaci di fermarci. Ci è imposto dal dovere di limitare e possibilmente azzerare il contagio, ma abitare questo imperativo da protagonisti non è scontato. Siamo stati costretti a fermarci all’improvviso e lasciarci alle spalle la vita frenetica e frammentata a cui, pur nello stress, ci eravamo abituati: ci eravamo tragicamente abituati a vivere alienati da noi stessi. E ora che abbiamo la possibilità di stare davanti a noi stessi rischiamo di sperimentare o sperimentiamo il vuoto.

Ma la storia, anche recente, ci presenta figure colossali di uomini e donne che hanno saputo fare di situazioni di limitazione enorme l’occasione per incontrare nella verità se stessi e l’umanità, per prendere coscienza della realtà e per abitarla in modo nuovo. Forse in questo tempo ci può essere d’aiuto andare a rivisitarle, leggere i loro scritti, entrare con loro in un ‘sì’ consapevole a quel che stiamo vivendo nelle nostre reclusioni forzate o scelte che siano.

Sto pensando a figure come Viktor Frankl (il fondatore della logoterapia) che in campo di concentramento ha maturato la coscienza della debolezza e della forza dell’essere umano: «Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve essere; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è.» (Homo patiens. Soffrire con dignità – Victor Frankl).

Penso al Nobel per la letteratura, Alekander Solženicyn che, prigioniero nei Gulag, ha confermato la sua decisione di ‘vivere senza menzogna’, tratteggiando le basi di un eroismo quotidiano come quello vissuto in questo tempo dal personale medico e da quanti sono in prima linea per fronteggiare la pandemia: «La linea di quei pochi che sanno scegliere sacrificando se stessi è la luce che illumina il nostro futuro. Impressiona sempre questa peculiarità psicologica dell’essere umano: nel benessere e nella spensieratezza, ha paura anche delle più piccole contrarietà che toccano la periferia della propria esistenza, fa di tutto per non conoscere le sofferenze altrui e le proprie future, rinnega molte cose, perfino ciò che è importante, spirituale, essenziale pur di conservare il proprio essere. Giunto invece alle ultime rive della miseria dove l’uomo è nudo e privo di tutto quello che sembra rendere bella la vita, ecco che trova improvvisamente in se stesso la risolutezza per fermarsi all’ultimo passo e sacrificare la vita purché siano salvi i principi. Per la prima peculiarità l’umanità non ha saputo mantenere nessuna vetta conquistata, per la seconda si è sollevata da tutti gli abissi». (Sull’umanità e il sacrificio – Aleksandr Solženicyn).

O, ancora, a Etty Hillesum, questa piccola e fragile ragazza ebrea deportata ad Auschwitz che, perso tutto, la libertà e gli affetti, si è trovata davanti alla sfida di abitare se stessa scoprendo che proprio il coraggio di abitarsi fa scaturire forza e amore da donare agli altri: «Ieri, per un momento, ho pensato che non avrei potuto continuare a vivere, che avevo bisogno di aiuto. La vita e il dolore avevano perso il loro significato, avevo la sensazione di ‘sfasciarmi’ sotto un peso enorme, ma anche questa volta ho combattuto una battaglia che poi all’improvviso mi ha permesso di andare avanti con maggiore forza. Ho provato a guardare in faccia il ‘dolore dell’umanità’. Ho affrontato questo dolore, molti interrogativi hanno trovato risposta, l’assurdità ha ceduto il posto a un po’ più di ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo. E’ stata un’altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità in più. Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi o alcuni problemi del nostro tempo. L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità in qualche parte, in cui possono combattere e placarsi e noi dobbiamo aprire loro il nostro spazio interiore senza sfuggire. »

Fatti tutti i distinguo del caso (non abbiamo persecutori, ma un virus che mette a repentaglio la salute e la vita di tutti, soprattutto di chi è già provato dall’età e dalla malattia) valgono per noi anche le parole con cui Etty commenta la limitazione degli spostamenti imposta agli ebrei: «Dappertutto c’erano cartelli che ci vietavano la strada per la campagna: ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci nulla, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale e di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati ed oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quello che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli.»

Qui in monastero la vita scorre così, nel desiderio che il tempo che ci è dato da vivere sia il luogo abitato da quel lavoro su noi stesse che ci renda un po’ migliori, un po’ più umane e cristiane. Il principale lavoro del monaco è la conversione, il cambiamento di mentalità che riporti al centro l’Essenziale. Con le sorelle stiamo sperimentando un grande paradosso: l’emergenza del Covid-19 ha come dilatato il tempo. Ha esteso in profondità le giornate. Le ore si sono fatte più intense. Intense, non più lunghe come quando si veglia nelle notti di malattia perché il sonno non arriva: no, intense. Riempite di un essenziale che non pensavamo di trovare proprio qui. Proprio in un’emergenza. L’essenziale della preghiera d’intercessione, che pianta esistenzialmente al centro del cuore il Mistero della Croce in cui tutto è stato riconciliato. Non perché la nostra preghiera abbia il potere di piegare il cuore di Dio, ma perché Lui, dall’alto della Croce, sta intercedendo per noi, per il nostro mondo ‘tanto amato’ e ci attira lì.

Resta una domanda: possiamo fare qualcosa per mobilitare la nostra libertà a dire ‘sì’ a quel che sta succedendo e alle sue conseguenze? Si può liberamente dire ‘sì’ all’imperativo ‘Fèrmati!’? Crediamo di sì: forse un primo modo è sentire che questa ‘brutta storia’ ci appartiene: che ci appartengono tutti coloro che, in prima linea, stanno combattendo la battaglia contro il Covid-19: i malati sono i nostri malati, sono i nostri medici, tutto il nostro personale sanitario, sono i nostri politici, i nostri “addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri” (dall’omelia di papa Francesco di venerdì 27 marzo). Sono i nostri morti. Questo già fa dire di “sì” alla realtà e fa assumere la propria responsabilità, solidali con dei volti, dei nomi, delle persone concrete ben prima e ben al di là dei decreti che ci vincolano.

E poi: non rinunciare a essere uomini e donne adulti, capaci di reggere lo smacco del nostro stesso vuoto, di quella vertigine che sempre prende quando ci si sente braccati e ci si scopre più fragili, deboli e soli di quanto ci illudevamo di essere.

Non sforziamoci di riempire ciò che è rimasto vuoto, ma andiamo insieme (di là e di qua della grata) fino in fondo allo smarrimento dell’impotenza e della novità che questo tempo porta con sé. Navigando a vista, certamente, ma con la fiducia che il Signore è Pastore e che ci precede nel cammino: ovunque dirigano i suoi passi, a noi è chiesto di porre i nostri nella sua orma.

 

 

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